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MENTE, COSCIENZA, CERVELLO: UN PROBLEMA ONTOLOGICO

Ma non è il nostro intendere a dar senso alla proposizione? [ ... ]
E l'intendere è qualcosa che rientra nel dominio dell'anima.

(L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 358)

Dagli "atti linguistici" alla "coscienza"

Da oltre trent'anni, il lavoro filosofico di John R. Searle (1932) è caratterizzato dall'ambizioso progetto di elaborare una teoria generale della mente e del linguaggio.
Da ciò è emersa un'analisi rigorosa e dettagliata dell'intenzionalità, quale teoria in grado di dare una giustificazione unitaria e coerente degli stati mentali e dei comportamenti linguistici.

Formatosi nella Oxford degli anni cinquanta, alla scuola dei "filosofi del linguaggio ordinario" come John L. Austin, Paul Grice e Peter Strawson, Searle ha inizialmente elaborato in forma sistematica le indicazioni teoriche sugli atti linguistici, da Austin esposte in Come fare cose con le parole (1962), proponendo una tassonomia parzialmente diversa.
Il suo primo libro, Atti linguistici (1969) è molto vicino alle posizioni di Austin: gli atti linguistici sono aspetti o dimensioni dell'uso del linguaggio, di ciò che si fa pronunciando una frase. Searle distingue atti di quattro tipi: enunciativi, proposizionali, illocutivi e perlocutivi, ma è esclusivamente interessato agli atti proposizionali e illocutivi.
In particolare, egli sottopone a dettagliata indagine l'atto illocutivo della promessa e tale analisi diviene per Searle il paradigma di analisi degli atti illocutivi.
Per le sue ricerche nell'ambito della filosofia del linguaggio, Searle è considerato uno dei fondatori della pragmatica moderna.
Egli tuttavia non accetta la distinzione tra semantica, come teoria del significato, e pragmatica, come teoria dell'uso di espressioni dotate di significato, presupposta da molti studi di pragmatica. Egli ritiene, piuttosto, che significare e dire qualcosa dotato di significato, siano aspetti dell'illocuzione e rientrino perciò nel campo della teoria degli atti linguistici, che tende così a configurarsi come teoria generale del linguaggio.
Nella teoria un ruolo fondamentale spetta al concetto di "intenzione", poiché la descrizione di un atto linguistico si riferisce essenzialmente alle intenzioni del parlante.
L'intenzione e l'intenzionalità sono diventati l'oggetto di indagine dei successivi lavori di Searle.
Dagli atti linguistici e dalla filosofia del linguaggio Searle è giunto a occuparsi di filosofia della mente, segnando una svolta coerente nel suo pensiero.
In Dell'intenzionalità (1983), ha elaborato una teoria generale dei fenomeni mentali che fa riferimento dalla tradizione fenomenologica di Brentano e Husserl, ma all'interno di una prospettiva realista, radicalmente diversa dal trascendentalismo di Husserl.

Il carattere fondamentale dell'intenzione, la "direzione verso un oggetto", rimane una proprietà accettata anche da Searle, e anche il carattere di irriducibilità a qualcos'altro. Come Husserl, Searle considera l'intenzione uno stato della mente, un processo mentale che può essere considerato sinonimo di "evento di coscienza". L'intenzionalità è una proprietà di base della mente: di essa non è possibile fornire un'indagine logica in termini di nozioni più semplici. L'intenzionalità è un "primitivo".
L'indagine di Searle si pone tuttavia in una prospettiva molto diversa rispetto a quella della tradizione fenomenologica. Le intenzioni vengono considerate a livello del mentale, ma questa considerazione viene effettuata non mediante l'indagine fenomenologico-trascendentale della coscienza, bensì attraverso l'analisi del comportamento umano verbale, gli enunciati linguistici, e non verbale, le azioni pratiche.
Searle vuole comprendere le implicazioni dell'intenzionalità non solo a livello psicologico e mentale, come voleva la fenomenologia, ma anche a livello linguistico e comportamentale, nonchè neurologico e biologico.

Gli oggetti che per Brentano erano oggetti psichici, per Searle sono gli oggetti del mondo, della realtà fenomenica: la direzionalità dell'intenzione è direzionalità verso un oggetto fisico che esiste realmente, non è solo contenuto nella nostra mente.

Linguaggio, mente, realtà

Iniziato con la filosofia del linguaggio e la teoria degli atti linguistici, il percorso di Searle è andato sempre più orientandosi verso la filosofia della mente.
Dall'analisi dell'intenzione e dell'intenzionalità, fino all'elaborazione di una teoria della coscienza (La riscoperta della mente, 1992) e alla critica radicale dell'intelligenza artificiale.
Con l'approdo recentissimo all'indagine della realtà sociale (La costruzione della realtà sociale, 1995). Uno sviluppo coerente, contrassegnato dal costante tentativo di rispondere ai problemi di relazione mondo-mente, ovvero la complessa relazione mente -linguaggio- realtà, naturale, soggettiva e sociale. "Molti dei problemi filosofici che maggiormente mi interessano - afferma Searle - hanno a che fare con la questione di come i diversi elementi che costituiscono il mondo si relazionino gli uni agli altri, e di come possano stare insieme, siano essi elementi del linguaggio, della mente o delle azioni umane. Il mio lavoro filosofico è sempre stato rivolto a tale questione".

L'indagine sull'intenzionalítà e la coscienza ha condotto Searle (Mente, cervelli e programmi, 1984) ad attaccare il programma dell'intelligenza artificiale "forte", cioè di quella corrente di pensiero che non si limita a considerare il computer come un utile strumento di studio della mente umana, ma sostiene che, se opportunamente programmato, esso è equivalente alla mente dell'uomo. Per Searle le macchine sono in grado di manipolare sintatticamente simboli, ma non sono assolutamente in grado di interpretarli, cioè di comprenderne il significato o di attribuirgliene uno. Solo il cervello è capace di intenzionalità.
L'argomentazione di Searle è supportata dall'esperimento mentale (Gedankenexperiment) ormai molto noto e discusso, della "stanza cinese" (chinese rooms argument). Supponiamo che uno di noi sia rinchiuso in una stanza, e gli vengano passati dei simboli cinesi, insieme a regole, in italiano, che fanno corrispondere a certi insiemi di simboli altri insiemi di simboli.

La persona chiusa nella stanza
non sa che i primi sono domande in cinese, e i secondi le risposte, in cinese, a quelle domande; tuttavia, se segue le regole, il suo comportamento linguistico sarà indistinguibile da quello di uno che parli cinese. Come in questo caso non diremmo che l'uomo comprende il cinese, nonostante la sua capacità di manipolare simboli, così non lo diremmo nel caso di una macchina che disponesse dello stesso software per "comprendere" il cinese.

Secondo Searle il modello computazionale della mente, che sta a fondamento dell'intelligenza artificiale, non considera affatto gli aspetti fondamentali della mente umana, che sono la coscienza e l'intenzionalità. La mente ha contenuti mentali o semantici, qualunque tentativo di riprodurla utilizzando programmi per calcolatore, che sono solamente formali o sintattici, trascura le sue proprietà essenziali. I fenomeni mentali sono fenomeni primitivi, cioè irriducibili a enti o fenomeni più "profondi", ed essi sono tanto reali quanto lo sono fenomeni biologici quali la fotosintesi, la mitosi e la digestione. Il classico dualismo cartesiano, il problema mente-corpo, non si risolve - come vorrebbero i funzionalisti - riducendo la mente e il cervello al programma di un computer, ma con la comprensione del fatto che i fenomeni mentali sono esattamente tutto ciò che accade nella struttura fisica del cervello.

Sia a livello cerebrale, di hardware, sia a livello mentale di software l'uomo si rivela un animale razionale altamente complesso e sofisticato; il suo comportamento non è riconducibile al sistema classico della logica binaria, digitale, che governa il mondo dei computer e dell'intelligenza artificiale.

Le azioni, le scelte, i comportamenti degli uomini spesso oltrepassano la rigidità cristallina della logica binaria dell'aut-aut. Le scelte umane hanno più spesso a che fare con le sfumature del grigio che con il bianco e il nero; coinvolgono stati cognitivi ed emotivi come i desideri, il piacere, le credenze che, inevitabilmente, influenzano l'orientamento delle scelte razionali. I nostri piani intenzionali sono a volte troppo "sfumati", "imprecisi", limitati" e sfuggono al meccanismo logico del sillogismo classico; ma tale vaghezza, tale imprecisione è anche ciò che maggiormente caratterizza l'intelligenza umana, rendendola così articolata e sofisticata.
E la logica del vago, la fuzzy logic, che domina le nostre emozioni e sensazioni percettive è esattamente ciò che, anche i computer più sofisticati e stupefacenti, non sono in grado di riprodurre con precisione.
Emozioni, desideri, credenze, intenzioni, gioia, dolore, percezioni, sensazioni sembrano dunque costituire gli elementi che impediscono la realizzazione del sogno dell'intelligenza artificiale.

Professor Searle, lei ha trascorso la sua giovinezza filosofica nella Oxford degli anni cinquanta, formandosi quindi in un ambiente intellettuale fortemente dominato dalla allora nascente filosofia del linguaggio ordinario. Erano gli anni in cui Austin, Strawson e Grice insegnavano a Oxford, e l'influenza dell'ultimo Wittgenstein era molto presente in figure come la Anscombe e von Wrigbt. Quale fu la sua "educazione filosofica", quanto il suo pensiero è stato influenzato dai "maestri di Oxford"?

Arrivai a Oxford poco più che adolescente, all'età di diciannove anni, e quasi totalmente a digiuno di filosofia. Avevo seguito alcuni corsi di filosofia all'università di Winsconsin, ma negli anni cinquanta la situazione della filosofia in America era a un livello veramente molto basso. A Oxford si era invece nella piena età d'oro della cosiddetta "filosofia del linguaggio ordinario", stimolata dall'eredità del secondo Wittgenstein. Il mio impatto con questo atteggiamento filosofico fu inizialmente piuttosto traumatico: non riuscivo a comprendere la rilevanza filosofica dell'analisi del linguaggio ordinario, non vedevo un senso in questo, una direzione cui tendere.
Ma ben presto capii che proprio questo atteggiamento andava a determinare una svolta radicale nel modo stesso di fare filosofia. Per i filosofi analitici di Oxford l'obiettivo principale era fornire un modello di chiarezza e razionalità, che si allontanasse completamente dalle oscurità metafisiche della tradizione occidentale, e questo lavoro filosofico veniva svolto in una assoluta cooperazione, come un' impresa comune da realizzare in gruppo.
L'aspetto limitante dell'impresa era dato dal campo molto ristretto entro il quale si riconducevano le questioni filosofiche ritenute significative.

In tale contesto intellettuale la figura dominante era senza dubbio quella di John L. Austin: l'influenza da lui esercitata sugli studenti e sui colleghi era enorme, superava quella di chiunque altro, anche di Ryle o Strawson, che pure filosoficamente erano probabilmente più originali di Austin. Credo che questo fosse legato ad aspetti specifici della personalità di Austin: egli incuteva timore e reverenza, il rigore delle sue argomentazioni era inattaccabile, e non tollerava nessuna incertezza o vaghezza. Nonostante le mie perplessità iniziali, lo stile filosofico che ho appreso a Oxford, ha poi determinato in modo fondamentale il mio stesso procedere argomentativo. Ritengo che in filosofia sia fondamentale proseguire in maniera rigorosa, passo dopo passo, seguendo un progetto preciso, senza pretendere di conoscere ciò che altri non conoscono, o di provare ciò che non è stato provato.

Lei ha accennato all'influenza di Wittgenstein a Oxford. Tale influsso determinava un orientamento unilaterale e omogeneo tra i filosofi, o lasciava spazio a critiche e prese di posizione divergenti?

Certamente Wittgenstein costituiva il predominio intellettuale a Oxford. Vi erano persone come Elisabeth Anscombe, Brian McGuirmess e Michael Dummett che incarnavano in un certo senso "l'ortodossia", giungendo ad assumere anche atteggiamenti esteriori e comportamentali emulatori nei confronti del "maestro". Chi conobbe Wittgenstein giura che la Anscombe sembrava una sua copia esatta: stessi atteggiamentí, modo di camminare, di parlare e così via. Ma vi era anche chi, come Austin, all'opposto trovava in Wittgenstein un bersaglio critico: lo riteneva impreciso, vago, oscuro.
Per Austin le Ricerche filosofiche erano un testo incomprensibile, metaforico, contraddittorio.
Il suo metodo in filosofia consisteva nel prendere ogni cosa "assolutamente alla lettera ", e quindi anche la sua lettura delle Ricerche filosofiche era assolutamente letterale e rigorosa; e in questo senso direi che Austin non comprendeva affatto il linguaggio metaforico dell'ultimo Wittgenstein. Un giorno entrò in aula dicendo: "Oggi vi dimostrerò come Wíttgenstein sia un pensatore oscuro e contraddittorio.
Prendiamo la questione del coleottero nella scatola(1): prima Wittgenstein afferma che ciascuno ha una scatola con un coleottero, e poco dopo sostiene che nella scatola non c'è nulla. Questa è una contraddizione evidente!" Austin non riusciva proprio a cogliere le sfumature metaforiche del linguaggio di Wittgenstein, ogni analisi filosofica doveva essere letterale.

A proposito di Austin, le sue prime indagini filosofiche hanno preso avvio proprio dalla teoria degli atti linguistici di Austin. E' quindi Austin la figura che ha maggiormente determinato l'indirizzo del suo pensiero filosofico?

Sebbene i miei primi lavori in filosofia del linguaggio nascano dagli atti linguistici di Austin, la figura che a Oxford influenzò maggiormente il mio modo di fare filosofia fu in realtà Peter Strawson.
Da Strawson ho imparato a costruire un'argomentazione filosofica, a insistere sui concetti con precisione e chiarezza, a scrivere di filosofia. Il mio stile filosofico è stato totalmente determinato dagli insegnamenti di Strawson, e fu lui a convincermi a intraprendere la filosofia come professione e a diventare poi professore.

Come mai non proseguì la sua carriera a Oxford, decidendo invece di ritornare negli Stati Uniti?

Sostanzialmente per ragioni personali. Non avevo nessuna voglia di trascorrere interamente la mia vita in Inghilterra, avrei preferito piuttosto la Francia, ma la filosofia francese mi appariva stupida, disonesta e ridicola. In generale non sentivo una particolare attrazione per il pensiero filosofico della tradizione europea e, sebbene fossi intellettualmente cresciuto in Inghilterra, non mi sono mai sentito un inglese. lo sono americano, e non volevo che i miei figli diventassero dei tipici "englishmen", e che parlassero con quel ridicolo accento inglese, volevo che crescessero in America. Mi rendevo conto che probabilmente sarei divenuto un miglior filosofo rimanendo a Oxford. Le università americane tra gli anni cinquanta e sessanta, erano desolatamente povere filosoficamente - le uniche due eccezioni erano date da Carnap e da Quine. L'ambiente di Oxford era invece estremamente stimolante, animato da un dibattito filosofico intenso e creativo.

La mia decisione di tornare in America non fu ben accolta a Oxford, ma Austin la appoggiò, ed anche grazie a lui giunsi in California, a Berkeley. E, sebbene al mio arrivo il dipartimento di filosofia fosse praticamente inesistente, in pochissimi anni divenne uno dei più prestigiosi negli Stati Uniti. Questo a seguito dell'arrivo di alcune figure straordinarie come Thomas Kuhn, Paul Grice, Thomas Nagel e Stanley Cavell, che diedero un notevolissimo impulso a Berkeley.

Le sue indagini si sono sviluppate dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente attraverso un percorso in un certo senso unitario e coerente...

I miei primi lavori riguardavano la filosofia del linguaggio, e il mio interesse era rivolto soprattutto agli atti linguistici. In particolare pensavo, diversamente da Wittgenstein, che fosse possibile giungere a una teoria generale, ed effettivamente una tassonomia generale degli atti linguistici è ciò che ho elaborato in Atti linguistici (1962). Il mio lavoro ha preso avvio da alcune brillanti intuizioni di Austin, che egli stesso pensava di pubblicare in un libro, ma che la morte prematura, alla sola età di 48 anni, gli impedì di realizzare. Ho proseguito nella direzione di una elaborazione sistematica e generale degli atti linguistici, e lungo questo percorso mi sono trovato a considerare il problema del significato e ad ampliare la trattazione di nozioni come la credenza, il desiderio e soprattutto l'intenzione e l'azione intenzionale. E' allora che ho cominciato a pensare che dovevo soffermarmi su tali nozioni, e scrivere un libro sull'intenzionalità.

E qui cominciai a confrontarmi con uno dei punti deboli della filosofia di Oxford: la filosofia della mente. L'altro maggior punto di debolezza era costituito dall'etica. La filosofia della mente che si apprendeva a Oxford negli anni cinquanta era data da alcune annotazioni sparse di Wittgenstein, e da Ryle. Ma nessuno pensava a una teoria generale dell'intenzionalità; i fenomeni mentali si riducevano al problema delle condizioni sotto le quali era possibile descrivere verbi psicologici.
Ma ciò che a me interessava era conoscere i fatti che corrispondevano a quelle descrizioni linguistiche. Sono così giunto all'idea di scrivere un libro sull'intenzionalità, e questo ha occupato dieci anni della mia vita: un lavoro filosofico immenso, impegnativo e accidentato.
Mi è stato subito chiaro che nella teoria degli atti linguistici era in un certo senso implicita una teoria dell'intenzionalità. La struttura dell'atto linguistico è data dal contenuto proposizionale, e la forza illocutoria rispecchia la struttura della mente; a uno stato proposizionale corrisponde uno stato psicologico. Le medesime nozioni che avevo elaborato in filosofia del linguaggio, direzione di adattamento, condizioni di soddisfazione ecc. potevano essere utilizzate anche in filosofia della mente.
Intuitivamente osservai che l'atto linguistico costitutiva la base per indagare l'intenzione, e che la struttura dell'azione e quella della percezione si rispecchiavano l'una nell'altra.
E da qui sono giunto alla teoria dell'intenzionalità. Successivamente ho compreso che una volta che possediamo una teoria degli atti linguistici e una teoria dell'intenzionalità abbiamo esattamente gli strumenti, il meccanismo necessario per sviluppare una teoria della realtà sociale. Il problema diviene: in che modo l'intenzionalità collettiva, per mezzo del linguaggio, giunge alla creazione di una realtà istituzionale, la realtà del denaro, della proprietà, del matrimonio, dei governi e della politica? E questo è ciò cui ho cercato di rispondere nel mio recente libro La costruzione della realtà sociale (1995). Potrei dire che, in un certo senso, ho scritto un solo libro in tutta la mia vita, e che quest'ultimo è un nuovo capitolo del medesimo libro. Nel mio libro vi sono numerosi capitoli sugli atti linguistici, parecchi sull'intenzionalità, alcuni sulla coscienza e uno sulla realtà sociale.

La sua teoria dell'intenzionalità, si è evoluta e ampliata in una teoria della coscienza, che critica fortemente i tentativi di riproduzione artificiale della mente dell'uomo. Le sue tesi radicali da oltre dieci anni animano le discussioni non solo dei filosofi, ma di scienziati cognitivi, ingegneri informatici e neuroscienziati.

Devo dire che non considero, in generale, il dibattito sulla filosofia della mente particolarmente interessante; il livello intellettuale è sicuramente inferiore a quello della filosofia del linguaggio. Le tematiche che segnano l'attuale filosofia del linguaggio, come le teorie del riferimento e della causazione, mi sembrano di grande rilevanza filosofica, benché mi trovino in parziale disaccordo. Il confronto con filosofi del linguaggio brillanti e intelligenti come Saul Kripke, David Kaplan o Tyler Burge è molto stimolante e, anche quando le nostre posizioni sono opposte o divergenti, il dibattito filosofico si mantiene sempre ad alti livelli.

Con la filosofia della mente è completamente diverso. Vi sono persone che hanno acquisito fama e notorietà, senza aver fornito alcun contributo scientifico rilevante alla comprensione dei fenomeni mentali. La pretesa dell'intelligenza artificiale "forte" e del funzionalismo, di aver risolto il dualismo cartesiano riducendo gli stati mentali a un problema computazionale, e quindi al software di un computer, mi sembra totalmente fuorviante, semplicistica e riduttiva. Mente, coscienza, intenzionalità, credenze e desideri sono fenomeni ben più complessi di quanto potrebbe mai esserlo il più sofisticato dei computer progettabili. Già il cervello, l'hardware, dimostra una complessità che, nonostante la rivoluzione delle neuroscienze, presenta ancora numerose zone oscure.

Dalle indagini di Gerald Edelman(2), sappiamo che in alcune aree del cervello sono presenti miliardi di neuroni, e il numero di connessioni sinaptiche che essi stabiliscono è sbalorditivo: circa un milione di miliardi di connessioni. Se l'organizzazione della materia della mente, formata da neuroni, sinapsi, cellule, strati, lamine e nuclei è già di per sé complessa, tale complessità diviene necessariamente maggiore se posta in relazione all'agire cosciente dell'individuo.

Il mio libro La riscoperta della mente (1994) è senza dubbio il più polemico tra i miei lavori pubblicati: ho cercato di mettere in evidenza gli errori ampiamente diffusi nell'attuale filosofia della mente, e questo mi ha costretto ad assumere toni critici e radicali che in filosofia del linguaggio non ho mai adottato.
Sin dagli anni ottanta, in cui pubblicai Mind, Brains and Science (1984), la mia critica al funzionalismo e all'intelligenza artificiale "forte", ha innescato un dibattito polemico che mi ha trovato sorpreso e impreparato. Successivamente sono giunto a comprendere la natura dei furiosi attacchi all'esperimento mentale della "stanza cinese": l'intelligenza artificiale ha a che fare con molto di più che con astratte teorie filosofiche. Per molte persone tale campo d'indagine è fonte di enormi guadagni economici. Costoro hanno scommesso la loro carriera sull'idea di ricreare la mente dell'uomo tramite la progettazione di sofisticati programmi per computer. lo continuo a rifiutare tale ipotesi, la considero stupida, ridicola e controintuitiva, e l'argomento della "stanza cinese" mi sembra ovvio: se l'uomo rinchiuso nella stanza non comprende una parola di cinese, come potrebbe comprenderlo un computer?

Ma convincere gli altri di tale insensatezza è un'impresa ardua. Difendere l'intelligenza artificiale non significa per costoro difendere un'ipotesi scientifica - per definizione indeterminata, mutevole e relativa - bensì significa difendere un'ideologia, determinata, assoluta e inattaccabile.

Nella tradizione filosofica occidentale non è facile riscontrare una teoria generale, o una trattazione sistematica della coscienza. Eppure il termine "coscienza" attraversa l'intera storia della filosofia. Dal termine 'Nous' o Tsyche" di Aristotele, al "Cogito" di Descartes, a "Gewissen" e "Bewußtsein" di Heidegger, o "State of Consciousness" di Wittgenstein. Che cosa significa per lei il termine "coscienza"?

Sono convinto che definire con rigore i termini linguistici sia fondamentale. E purtroppo questo, nella filosofia attuale accade raramente. Ritengo vi siano sostanzialmente due tipi fondamentali di definizioni: le definizioni analitiche e le definizioni di senso comune. Una definizione analitica del termine "acqua" è H2O, ma la definizione di senso comune è quella di sostanza liquida e di colore chiaro che vediamo nei laghi, nei fiumi e come pioggia.

Nel caso della coscienza, non disponiamo di una definizione analitica, che potremmo avere qualora vi fosse una teoria biologica del funzionamento del cervello in grado di descrivere analiticamente anche la coscienza. Possiamo tuttavia dare una definizione di senso comune: la coscienza consiste in una serie di stati e processi soggettivi. Essi sono stati di consapevolezza di sé, interiori, qualitativi e individuali.
La coscienza è dunque quella cosa che comincia ad apparire al mattino, quando dallo stato di sogno e di sonno passiamo allo stato di veglia e permane per tutta la durata del giorno fino alla sera, quando tornando a dormire, diventiamo incoscienti. Questo è per me il significato del termine "coscienza".
Filosofi come Daniel Dennett, sostengono che la coscienza è riducibile a un fenomeno meccanico che determina causalmente i nostri comportamenti, ma questa ipotesi lo conduce alla negazione dell'esistenza della coscienza. E il tentativo di separare i qualia, le esperienze soggettive, dal problema della coscienza è un'altra forma di riduzionismo che non considera l'essenza ontologica degli stati di coscienza, che è data proprio dal loro essere stati qualitativi. Non esistono due diversi problemi, il problema della coscienza e il problema dei qualia; il problema dei qualia è il problema della coscienza.

Lei ha accennato allo stato di incoscienza in cui ci troviamo durante il sogno, contrapponendolo allo stato di veglia della coscienza. Che ruolo ha l'inconscio in relazione alla sua teoria della coscienza?

Il ventesimo secolo ha determinato un completo capovolgimento dei ruoli comunemente assegnati alla coscienza e all'inconscio, Prima non si vedeva alcun problema nella nozione di coscienza, mentre la nozione di inconscio veniva considerata enigmatica e oscura.
Dopo Freud la situazione si è ribaltata: ognuno di noi, nel tentativo di spiegare gli esseri umani, fa costante riferimento ai fenomeni mentali inconsci, a termini come "Io", "Es" e "Super-Io", ritenendo al contrario difficilmente comprensibile la nozione di coscienza. Influenzati dal razionalismo cartesiano, abbiamo pensato che la coscienza fosse un concetto assurdo, misterioso e non indagabile dalla scienza e dalla filosofia.
Diversamente da questa tradizione, sono convinto che disponiamo di una definizione di
coscienza molto chiara, benché di senso comune e non scientifica; ciò che manca è invece la definizione di inconscio.
Secondo una prima definizione ingenua, uno stato mentale inconscio è uno stato mentale cosciente a cui manca il requisito della coscienza. Grazie a Freud siamo ormai talmente abituati a parlare di stati mentali inconsci da non accorgerci che il significato di questa definizione ingenua di "inconscio" non è affatto ovvia: è possibile che uno stato mentale sia ancora tale se viene privato della coscienza? Freud risponde affermando che "tutti gli stati mentali sono in se stessi, in sé (an sich) inconsci", e che la coscienza non è altro che un modo di percepire stati mentali inconsci.
Non vedo come sia possibile mettere assieme l'ontologia dell'inconscio delineata da Freud con le nostre conoscenze sul funzionamento del cervello, né con una teoria della coscienza, quale io sostengo, secondo cui coscienza, intenzionalità e processi neurofisiologici, per quanto complessi essi siano, esauriscono l'intera attività cerebrale. Dal mio punto di vista attribuire a un soggetto una vita mentale inconscia significa far riferimento a un'ontologia neurofisiologica oggettiva, descritta però in base alla sua capacità di causare fenomeni mentali soggettivi e coscienti, l'inconscio esiste in quanto connesso alla coscienza, e non "in sé", come sostiene Freud.
Possiamo parlare dell'inconscio soltanto nei termini di una sua accessibilità alla coscienza, diversamente dovremmo considerare gli stati inconsci come oggetti stipati in un oscuro ripostiglio della nostra mente: anche se non li vediamo, essi conservano la propria forma e le proprie caratteristiche. Credo si debba pensare l'inconscio in un senso più ampio, collocandolo all'interno dello "sfondo" (Background) che determina le nostre capacità intenzionali, e che ci consente di agire come esseri coscienti intenzionali.
Il concetto di "sfondo" cui mi riferisco differisce dal concetto di intenzionalità e di coscienza: esso è ciò che presuppone e causa gli stati intenzionali, è lo sfondo ontologico entro il quale si situano le nostre credenze, intenzioni, stati coscienti e incoscienti.

L'eredità del dualismo cartesiano è presente in diversi ambiti della nostra storia intellettuale, non soltanto in filosofia, ma anche in psicologia, biologia, medicina e nelle moderne neuroscienze. La separazione abissale tra il corpo e la mente ha avuto profonde conseguenze nello sviluppo degli studi sulla mente e il cervello. Lei ha proposto una soluzione originale della questione, definendola come "naturalismo, biologico".

Lei ha toccato la questione direi centrale, fondamentale dell'attuale dibattito sulla mente: il problema mente-corpo da duemila anni provoca controversie e approcci diversi. Ma io ritengo che esso abbia una semplice soluzione e che questa sia in fondo estremamente intuitiva. E' la soluzione che ho chiamato, per distinguerla dalle altre, "naturalismo biologico": essa afferma che i fenomeni mentali sono causati al processi neurofisiologici e che questi sono a loro volta proprietà del cervello. Gli eventi e i processi mentali sono parte della nostra storia naturale non meno della digestione o della respirazione, o di qualsiasi altro fenomeno biologico.

Di per sé il naturalismo biologico solleva un gran numero di interrogativi: di che natura sono i processi neurofisiologici, in che modo il cervello - con la sua complessa architettura di neuroni, sinapsi, recettori, mitocondri, fluidi trasmettitori ecc. - produce fenomeni mentali?
In che modo la neurofisiologia può spiegare l'immensa varietà della nostra vita mentale fatta di emozioni, desideri, credenze, gusti, odori, ansietà, timori, malinconia ed ebbrezza? Interrogativi come questi costituiscono il nucleo delle neuroscienze, ma anche della filosofia e delle scienze cognitive. La questione filosofica fondamentale, "che cos'è la coscienza?" riguarda oggi anche neuroscienziati, biologi e psicologi cognitivi. La mia soluzione alla questione della coscienza si fonda sugli studi recenti di neurofisiologia: la coscienza è una proprietà di alto livello, o emergente, del cervello nello stesso senso in cui la solidità è una proprietà emergente delle molecole di H20 quando assumono la struttura del ghiaccio. La coscienza è una proprietà mentale, e quindi fisica, del cervello, così come la liquidità è una proprietà di certe molecole.
Tuttavia vi è un elemento particolare e caratteristico della coscienza che la distingue da altri fenomeni naturali: essa è un fenomeno soggettivo. I contenuti della mente sono accessibili soltanto dal punto di vista della prima persona; sono fenomeni soggettivi e ontologici. Non è possibile dare una spiegazione della coscienza se non nel senso dell'ontologia, di un'ontologia soggettiva non metafisica.

La filosofia della mente degli ultimi cinquant'anni ha cercato di risolvere il problema della coscienza, e del dualismo mente-corpo riducendolo al solo problema fisico; il materialismo è ancora oggi l'orientamento dominante.
Ma tale atteggiamento porta alla negazione stessa della coscienza. La mia teoria della coscienza cerca di dare soluzione alle ipotesi tradizionali, a mio avviso palesemente false: essa è una teoria ontologica, fondata sulla biologia del cervello. La soluzione non è ancora raggiunta, numerosi problemi rimangono aperti e irrisolti, ma credo sia una questione di tempo.
Nel secolo scorso filosofi e biologi dibattevano animatamente il concetto di vita; oggi siamo in grado di dare una risposta precisa a "che cos'è la vita", e questo non costituisce più un problema filosofico. Auspico che per la coscienza accada la stessa cosa, che un giorno neuroscienziati e biologi giungano a confermare l'ipotesi del "naturalismo biologico", convalidando scientificamente la stretta connessione tra il funzionamento della mente e del cervello.

Lei ha detto che in un certo senso tutti i suoi libri anno parte di un unico, ponderoso, volume. Quale sarà allora il prossimo capitolo di tale libro? Di che cosa tratterà?

Vi è un "capitolo" cui sto lavorando da molto tempo e che mi sembra comprenda tutti gli altri. Intenzionalità, coscienza, mondo, realtà sociale sono argomenti filosofici che mi hanno portato a confrontarmi con un problema più ampio e generale: la razionalità umana. Il problema della razionalità è un tema classico nella storia del pensiero filosofico occidentale, ma credo sia stato spesso affrontato da prospettive errate o distorte. Giungere a una comprensione corretta della razionalità implica un percorso lungo ed estremamente complesso.

Tradizionalmente il problema della razionalità si è posto nei termini di capacità di organizzare in maniera coerente credenze e desideri in vista del raggiungimento di un fine, che si manifesta in un'azione razionale. Nei termini quindi del "sillogismo pratico" di Aristotele, in base al quale se, per esempio, mi sento affamato e credo che questa cosa che sta qui dinanzi a me sia del cibo, mi appresto a mangiare. Secondo lo schema dunque dell'inferenza pratica del tipo: A intende provocare P, A ritiene di poter provocare P se fa B, Quindi A si dispone a fare B.

Ritengo che questa idea di razionalità sia errata, o perlomeno riduttiva. La razionalità riguarda innanzitutto la libertà umana e il divario (gap) tra credenze e desideri, e tra iniziazione e completamento dell'azione. Il problema è estremamente complesso e non è possibile riassumerlo in poche parole: il libro che sto scrivendo è appunto sulla razionalità, e mi trovo totalmente immerso in questioni che ancora non sono giunto a portare a soluzione.
Il problema fondamentale va posto in termini kantiani, e comprende la relazione tra tempo, azione, ragione, desiderio e libertà. E tale problema non consiste nella semplice relazione causale tra desideri, credenze e azione; esso è molto più complesso.

Ha accennato ad Aristotele e al sillogismo pratico, a credenze, desideri e azioni. Il concetto di razionalità cui si riferisce è dunque quello di "razionalità pratica" alquanto diverso dalla "razionalità teoretica", dalla "ragion pura" di Kant.

Certamente, il mio interesse riguarda la razionalità pratica, non quella teoretica. La razionalità teoretica è più semplice di quella pratica; essa riguarda i problemi dell'evidenza e della verità, e questi possono essere risolti tramite strumenti di indagine scientifici e oggettivi, come la matematica e la logica. La razionalità pratica ha a che fare con l'azione, la libertà e il tempo, con la capacità di trovare soluzioni che mi

permettano di orientarmi nel mondo e interagire con esso. E questo è completamente diverso, è una differenza cruciale. Se l'uomo avesse soltanto una razionalità teoretica molti problemi dell'intelligenza artificiale sarebbero già risolti; è proprio la razionalità pratica che rende complessa l'intelligenza umana, ponendola dinanzi al problema della scelta tra alternative diverse, infinite, del libero arbitrio e dei desideri conflittuali. Le difficoltà di tradurre in azione volontà e desideri contrastanti, che segnano costantemente il nostro agire pratico, hanno a che fare con la razionalità pratica. E la complessità che si manifesta nella razionalità pratica dell'uomo, impedisce qualsiasi ipotesi di riduzione dell'intelligenza umana a modelli computazionali e meccanici della mente del cervello.

Desideri conflittuali e difficoltà nel prendere decisioni, danno luogo al fenomeno cbe già Aristotele definiva akrasia, intemperanza, e che nella letteratura filosofica contemporanea prende il nome di "volontà debole" o "debolezza del volere' (Weakness of the will). Come risolvere situazioni, che pur risultando logicamente corrette, si rivelano contraddittorie sul piano della vita pratica?

Credo vi sia una soluzione molto semplice alla questione dell'akrasia, persino ovvia.
Il problema del libero arbitrio consiste essenzialmente nel divario esistente tra le ragioni per agire e l'intraprendere effettivamente l'azione, cioè tra intenzione e azione. Un individuo può avere molteplici ragioni che lo spingono a una determinata azione, può disporre di tutti gli elementi che lo portano a riconoscere tale azione come la migliore possibile tra le varie alternative, e ancora può non essere in grado di agire effettivamente, concretamente. Il problema è: perché questo accade, che cosa provoca questa sorta di paralisi, di impedimento ad agire? Semplicemente perché tutti noi abbiamo desideri in conflitto e possono sempre emergere ragioni valide per non compiere l'azione che pure riteniamo la migliore fra tutte e la più giusta. Pensiamo sia meglio smettere di fumare perché è dannoso alla propria salute, e a quella degli altri, e pure continuiamo a farlo.
Penso che farei meglio a non bere una birra, eppure la bevo.
Sono convinto che questa sera dovrei lavorare duramente, perché è la cosa migliore da fare per terminare l'articolo che devo consegnare entro giovedì, e invece poi non riesco a fare a meno di guardare un film alla Tv. Questo è esattamente quanto accade comunemente nella vita di ciascun individuo.
Il punto è: perché si è sempre pensato che questo debba costituire un problema? La mia risposta è: perché abbiamo una teoria dell'agire razionale e della razionalità che fa apparire tali comportamenti irrazionali e inconsistenti, e che si fonda sulla convinzione che la ragione sia la causa dell'azione.
La ragione causerebbe l'azione allo stesso modo in cui una palla da biliardo causa il movimento delle altre palle. Ovvero, se siamo in grado di riconoscere le ragioni e le motivazioni per agire in un certo modo, dovremmo necessariamente agire coerentemente con tali ragioni. E non agire secondo ragione significa dunque agire in maniera irrazionale.
In questo senso credo che l'akrasia costituisca una conferma della complessità dell'agire umano, e che sottolinei le ampie possibilità della libertà dell'uomo. Possiamo disporre delle ragioni più chiare ed evidenti possibili per compiere una determinata azione, e ciononostante non riuscire ad agire secondo tali ragioni. Questo non significa che siamo affetti da disturbi patologici della razionalità o che agiamo in maniera totalmente irrazionale. La forma tipica dell'akrasia è la seguente: Sono consapevole che fare A è la cosa migliore, ma deliberatamente e intenzionalmente faccio B. Benché tale situazione indichi la presenza di due desideri in conflitto, non vi è alcuna assurdità logica o inconsistenza in essa. L'akrasia porta ad ampliare il concetto stesso di razionalità, e a considerare anche i desideri conflittuali o la volontà debole come espressioni della libertà e della responsabilità dell'uomo.

Che cosa significa per lei la parola "filosofia"?

Penso che il termine "filosofia" sia oggi un termine quasi inutile, perché indica troppe cose diverse, troppe scienze particolari, come l'estetica, l'etica, la logica, la scienza. Essa fa riferimento a concetti vaghi, è una disciplina di studio dai riferimenti troppo ampi per poter essere descritta rigorosamente.

Tuttavia sono convinto che il senso autentico della filosofia stia ancora oggi nel porre problemi e nel tentativo di darne soluzione; molti dei problemi filosofici che preoccupavano Platone e Aristotele costituiscono tutt'oggi dei seri problemi filosofici. Dissento totalmente da coloro che sostengono che i nostri problemi provengono dal fatto che siamo giunti oramai alla fine della filosofia, alla morte della filosofia.
Ho l'impressione invece che si sia appena iniziato a lavorare, a porre le questioni ed a porle nel modo corretto, e c'è sicuramente ancora un lunghissimo percorso da compiere, e credo sia proprio questo il significato più autentico del termine "filosofia".

Continuare a porre, socraticamente, le questioni essenziali, fondative e ontologiche: che cos'è la mente, che cos'è l'intenzionalità, che cosa significa agire coscientemente, che cos'è la razionalità ?



NOTE

1) Si veda L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 293.
"Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so che cosa significa la parola "dolore", - non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso! - Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c'è qualcosa che noi chiamiamo coleottero. Nessuno può guardare nella scatola dell'altro; e ognuno dice di sapere che cos'è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. - Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. [ ... ] La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota".

2) G.E. Edelman, Brigbt Air, Brilliant Fire. On the Matter of the Mind, Basic Books, New York 1992, trad. it. Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993.



BIBLIOGRAFIA

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- Intentionality: An Essay in the Filosopby of Mind, Cambridge University Press, 1983, trad. it. Della intenzionalità: un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985.

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- John Searle and his Critics, edited by E. Lepore, R. van Gulick, Basil Blackwell, Oxford Uk, Cambridge (Mass.) 1991.