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APPRENDIMENTO DI SIGNIFICATO IN RETI COMPETITIVE
Considerazioni sul concetto di significato

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Un segno ci appare come qualcosa che ci riporta ad un significato, ma, come abbiamo visto, quest'ultimo non è una proprietà del segno, qualcosa di cui il segno è un'etichetta. Piuttosto il significato è nella relazione che, chi percepisce, ha con il segno; quel segno fa in modo che, in chi percepisce, avvengano dei fenomeni fisici, emotivi e mentali per cui percepisce dei rapporti tra gli oggetti in un certo modo piuttosto che in un altro, attualizza, richiama alla coscienza le proprie relazioni con degli oggetti. Ciò che più ci interessa qui è la constatazione che sarebbe sbagliato voler cercare nel segno un significato, dipende da chi percepisce l'effetto di quel segno.

D'altra parte parliamo di segni con il sottinteso che si tratta di segni prodotti dall'uomo proprio per comunicare dei significati, ma lo stesso discorso si può fare per ogni oggetto percepito. Lo stesso percepire un oggetto come tale indica che già in gran parte si è dato ad esso un significato, si è visto come qualcosa di unitario, contrapposto a ciò che lo circonda, si sono già escluse delle possibilità. Sembrerebbe auspicabile considerare la stessa fase finale della percezione (la categorizzazione) posteriore all'attribuzione di senso, almeno di alcune componenti del significato, come vedremo in seguito.

Già Merleau-Ponty affermava:

"Conoscere significa dunque sempre cogliere un dato in una certa funzione, sotto un determinato rapporto, «in quanto» esso mi significa o mi presenta questa o quella struttura. Gli psicologi parlano spesso come se la questione fosse soltanto quella di stabilire donde venga questo significato del percepito, e essi considerano questo significato come una massa di dati addizionali, spiegandolo come una proiezione di immagini sui dati bruti dei sensi, ma non vedono che lo stesso problema si propone per le immagini che hanno introdotte. [...] Il solo modo, per una cosa, di agire su di una mente, è di offrirle un senso, di manifestarlesi, di costituirsi davanti ad essa nelle proprie articolazioni intelligibili." (Merleau-Ponty, 1942, pagg. 318-320).

Molti studi ci dimostrano chiaramente come la realtà sia costruita. Il modo in cui ci rappresentiamo la realtà è dato dalle predisposizioni genetiche della nostra specie (e magari anche di molte altre), combinata con la nostra cultura (gli studi sulla percezione dei colori in altre culture esemplificano bene questo concetto) e la nostra personale esperienza. Quello che ci appare qualcosa che porta un significato si rivela, ad un'analisi più approfondita, come frutto esso stesso di un proprio modello del mondo, delle proprie conoscenze, in definitiva di altri significati. Sembrerebbe economico non cercare di ridurre il significato ad altri elementi, ma prenderlo come elemento primario della realtà mentale, allo stesso modo in cui in chimica si considerano elementi fondamentali gli atomi, o nella geometria euclidea il punto. Questo è ciò che si è fatto, in fondo, nel campo dell'Intelligenza Artificiale.

Il pensiero come manipolazione di simboli

Nella scienza cognitiva in generale si è preso come fondamentale un universo di simboli, si è cercato di analizzare il modo in cui l'uomo manipola questi simboli e si è tentato di fare dei modelli e di riprodurre artificialmente queste regole di manipolazione. Il problema, a mio avviso, è sorto nel fatto che si sono introdotti dei segni non dei simboli1(o più esattamente dei significati).

Se si fanno manipolare dei segni, senza che questi corrispondano ad un significato per chi compie operazioni su di essi (come invece avviene quando a manipolarli è un essere umano), non si può avere la garanzia che la combinazione di segni che ne risulta è la stessa che ne sarebbe risultata, se chi agiva su di essi lo avesse fatto attribuendogli un significato.

Si è ipotizzato, in sostanza, che fosse possibile ridurre l'attività di pensiero ad una serie di "manipolazioni", di operazioni su questi segni e che il problema fosse solo quello di individuare che tipo di operazioni compie l'uomo su questi segni. Ciò sarebbe possibile se le regole di manipolazione fossero in numero finito, un insieme ben delineabile, lo stesso per tutti gli uomini (o almeno con l'esistenza di un modo "giusto" di manipolare questi segni per cui fosse sempre individuabile chi ha applicato correttamente le regole) e soprattutto che questo insieme non mutasse, fosse lo stesso da sempre, o che almeno le nuove regole fossero ricavabili da quelle vecchie, esattamente come in un sistema formale.

Oggi possiamo affermare che le cose non stanno in questo modo. Se il pensiero umano potesse essere ridotto ad una manipolazione di simboli esso sarebbe equivalente ad un sistema formale di produzione. Contro questa ipotesi ci sono, tra le altre cose, gli studi di Johnson-Laird ed una certa interpretazione del teorema di Gödel.

Johnson-Laird, in una serie di esperimenti, ha analizzato il modo in cui i suoi soggetti traevano delle conseguenze da alcune premesse. In queste prove, ha messo in evidenza come le risposte dei soggetti rivelavano che essi non avevano applicato le regole del sillogismo, ma la propria conoscenza contestuale, anche se ciò spesso li portava a sbagliare (Johnson-Laird, 1983). Nella stessa direzione andavano le ricerche di Kahneman e Tversky (1972), che hanno messo in luce come i soggetti dei loro esperimenti non basavano le loro decisioni su ragionamenti razionali, ma piuttosto sulla rappresentatività e disponibilità.

Il teorema di Gödel (1931), d'altra parte, dimostra come nemmeno la matematica si può ridurre solo ad assiomi, regole di inferenza e teoremi. Infatti, enunciando il teorema al di fuori del formalismo matematico, abbiamo che "qualunque sistema formale sufficientemente potente (cioè in grado di esprimere almeno ciò che esprime l'aritmetica elementare) contiene espressioni A tali che, nell'ipotesi che il sistema formale sia logicamente coerente, né A né la negazione di A sono deducibili nell'ambito del sistema tramite le regole di inferenza" (Pessa, 1976, pag. 47). Quindi in ogni sistema formale esistono proposizioni indecidibili (che, in altre parole, non è possibile ricavare a partire dagli assiomi tramite le regole di inferenza), ma ugualmente vere. "Questo ci porta a concludere, in modo inequivocabile, [...] che la matematica e, a maggior ragione, le altre attività umane non consistono solo in assiomi, regole di inferenza e teoremi" (Pessa, 1976, pag. 47-48). Dobbiamo quindi dedurne, con una certa sicurezza, che non si può proporre un'equivalenza tra il ragionamento umano e la manipolazione di simboli studiata dalla matematica (in particolare la logica) e dall' AI.

Anche dalla stessa storia degli studi dell'AI, si ricava una presa di coscienza sempre più netta di questa difficoltà di fondo; fino ad arrivare alle argomentazioni della "stanza cinese" di Searle (1980). Egli paragona la situazione dei computer che lavorano manipolando dei simboli a quella di una persona, che non conosce il cinese, ma che è chiusa in una stanza con un manuale (scritto nella sua lingua), che gli spiega come rispondere correttamente agli ideogrammi con altri da dare in uscita. Delle persone che conoscono il cinese gli danno degli ideogrammi e questa persona risponde con altri secondo le "regole" che trova nel manuale. Ora, a parte l'improbabilità di poter scrivere un manuale siffatto (ma è quello che si è cercato di fare e che cerca ancora di fare una branca dell'AI), è evidente che il fatto che quella persona risponda correttamente non significa che conosca il cinese. Egli non comprende le domande che gli vengono fatte, né le risposte che fornisce. Questa è innegabilmente la situazione di ogni sistema che proceda semplicemente manipolando simboli in modo tanto complesso e sofisticato quanto si voglia. Le argomentazioni di Searle valgono dunque contro ogni modello della mente di tipo computazionale simbolico.

Vi è comunque una corrente dell'Intelligenza Artificiale tradizionale (Intelligenza Artificiale debole) che non ritiene che il pensiero si riduca alla manipolazione dei simboli e considera i programmi di elaborazione simbolica adatti solo a fornire modelli dei processi cognitivi, oltre che, naturalmente, a scopi pratici.

Appare evidente, dunque:

1) che alla base del paradigma dell'Human Information Processing vi era un modello del pensiero umano che lo vedeva come applicazione di regole a dei simboli;

2) che questa visione, quando formulata esplicitamente, è stata superata, ma che continua ad essere la base di tutto il paradigma.

Se riconosciamo questo, assumono una nuova luce le difficoltà incontrate dall'AI e dal paradigma dell'HIP.

Componenti del significato

Tornando alla natura del significato, dobbiamo considerare inoltre che il significato nella sua complessità non si può ridurre al suo aspetto logico-linguistico, oltre che per i motivi che abbiamo visto, soprattutto perché non riusciremmo a spiegare come viene ricavato dal mondo reale. Si creerebbe una spaccatura tra realtà degli oggetti e realtà simbolica, la prima sarebbe manipolabile tramite le azioni e la seconda tramite queste regole. Inoltre simboli di questo tipo sono troppo rigidi rispetto a quelli con cui abbiamo a che fare quotidianamente nella nostra realtà fenomenologica.

Con la sua identificazione del pensiero con il pensiero linguistico l'intelligenza artificiale è inevitabilmente portata a concepire i concetti come strutture ben precise e delimitate, secondo la concezione cosiddetta «classica» dei concetti , per cui esistono criteri necessari e sufficienti che definiscono ciascun concetto. Questo è tra l'altro un risultato del fatto che l'etichetta linguistica attaccata a un concetto, il suo «nome», tende a far pensare che un concetto sia un'entità fissa, definita, oggettiva e ben separata da altri concetti. (Parisi, 1989; p.136)

Il significato che assumono per noi gli oggetti muta nel tempo (si è soliti dire che cambia il modo di vedere le cose...), e questi cambiamenti possono essere anche molto repentini. In considerazione di alcune nuove conoscenze, oppure di riflessioni personali può cambiare il significato di gran parte del proprio universo di significati. Questo universo è in realtà molto fluido, forse cambia molto meno di quanto potrebbe apparire a prima vista, ma sicuramente si ridefinisce, si precisa meglio (o diversamente) di continuo. Ogni nuova conoscenza si pone in rapporto con gran parte delle conoscenze precedenti e ne modifica in parte i rapporti.

Ma differenze ancora più sostanziali sono nell'importanza del corpo e delle emozioni. Nell'essere umano l'esperienza muta anche il proprio rapporto con il corpo, con il proprio modo di interagire con l'ambiente che lo circonda e, allo stesso modo, modifiche nel corpo modificano non solo il modo in cui l'ambiente viene percepito, ma anche il ricordo, la concezione che se ne avevano.

In effetti il senso che assume la realtà è dato dai rapporti che hanno gli oggetti tra di loro nella nostra percezione e nella nostra rappresentazione, ma anche dalle relazioni che hanno con l'oggetto più importante: che è il corpo stesso e, soprattutto, dal modo in cui noi, in quanto corpo, entriamo in relazione con essi (o abbiamo il ricordo del nostro entrarvi in relazione). E' solo in questo modo che possiamo superare la dicotomia tra il mondo dei significati e quello delle cose vissute, se prendiamo coscienza del nostro essere corpo (leib nel senso di Merleau-Ponty). La nostra esistenza fisica è un fatto cognitivo, c'è un immediato mutare del nostro modo di percepire in seguito a movimenti, o modifiche di qualunque tipo del nostro corpo, è fuorviante far ripartire la percezione da "fuori" e cercare di capire come si riproduca "dentro" qualcosa che prima non c'era. E' fuorviante porre l'accento su questa distinzione dentro/fuori, che è servita per semplificare la descrizione della complessa interazione organismo-ambiente, ma ha portato a dimenticare la natura comune di organismo ed ambiente, la loro compenetrazione, il loro risolversi dell'uno nell'altro. In sostanza si tratta di una distinzione costruita, sia filogeneticamente che culturalmente, tramite il significato dato ad ogni combinazione di rapporti che avesse rilevanza per qualche motivo.

In altre parole si ha la percezione del relazionarsi con un oggetto ogni volta che, per motivi filogenetici e ontogenetici, una porzione di realtà si stacca dal resto, abbiamo con essa una relazione diversa che con il resto dell'ambiente che la circonda. Diamo significato, dunque, alla nostra relazione con l'oggetto, più che all'oggetto, d'altra parte noi percepiamo l'oggetto, esso esiste per noi, proprio in virtù di questa relazione.

Il significato deve essere dunque visto sempre come relazione e non come rappresentazione. Da diverse parti e con approcci e modalità diverse ci si sta oggi avvicinando alla consapevolezza di ciò.

Brooks, uno dei pionieri e dei massimi esperti di robotica, arriva a considerazioni simili partendo proprio dalla sua esperienza nella progettazione di "creature" capaci di muoversi autonomamente e di correggere la loro azioni in base alle difficoltà incontrate ed ai propri obiettivi. Egli critica infatti il concetto stesso di rappresentazione:

"Quando esaminiamo un'intelligenza di livello molto semplice, troviamo che rappresentazioni e modelli espliciti del mondo non son altro che un impedimento. L'uso del mondo come modello di se stesso sembra essere un approccio migliore." (Brooks, 1987)

Anche Brooks insiste sul fatto che l'essenza dell'intelligenza consiste nel suo prendere corpo, che invece di cercare in astratto dei modelli di funzionamento "mentali" dobbiamo approfondire come il pensiero emerga dall'interazione di tutto l'organismo con la realtà. Per questo motivo egli propone che, invece di considerare il sistema distinto in funzioni diverse come la percezione, l'elaborazione, la programmazione motoria, si individuino una serie di attività, ognuna completa dei propri sensori ed effettori:

"Una scomposizione alternativa non fa distinzioni tra sistemi periferici, come la visione e sistemi centrali. Al contrario, la suddivisione fondamentale di un sistema intelligente viene effettuata ortogonalmente, scomponendolo in sottosistemi che producono attività. Ciascun sistema che produce un'attività, o un comportamento, connnette individualmente la percezione all'azione. Chiameremo un sistema che produce attività livello. Un'attività è uno schema di interazioni con il mondo. Un altro modo di chiamare le nostre attività potrebbe ben essere capacità, nel qual caso porremmo l'accento sul fatto che ciascuna attività può, almeno post facto, essere razionalizzata come perseguimento di un obbiettivo. Abbiamo scelto la parola attività, tuttavia, perché i nostri livelli devono decidere da soli quando agire e non essere delle subroutine a completa disposizione di qualche altro livello. [...]

L'idea è quella di costruire dapprima un sistema autonomo completo molto semplice e nel metterlo alla prova nel mondo reale. Il nostro esempio preferito di un tal sistema è una Creatura, in realtà un robot mobile, che eviti di urtare gli oggetti. Esso avverte la presenza di oggetti nelle sue immediate vicinanze e si allontana da essi, fermandosi se percepisce qualcosa sul suo cammino. Anche se per costruire questo sistema è ancora necessaria la sua scomposizione in parti, tuttavia non è necessaria alcuna netta distinzione fra un "sottosistema percettivo", un "sistema centrale" e un "sistema dell'azione". In realtà, potrebbero benissimo esserci due canali indipendenti che mettano in connessione la percezione e l'azione (uno per dare inizio al movimento, l'altro per le fermate di emergenza), in modo che non ci sia un unico sito a livello del quale la "percezione" produca una rappresentazione del mondo nel senso tradizionale. (Brooks, 1987, pag. 9)

Anche Parisi (1989), pur affermando che il connessionismo non ha abbandonato il concetto di rappresentazione, in effetti la vede in un modo che è intrinsecamente relazioni, essendo costituita da un particolare pattern di attivazione delle varie connessioni di una rete neurale:

Quando parlano di rappresentazione e di rappresentazione mentale, i cognitivisti hanno in mente un particolare tipo di rappresentazione, cioè una rappresentazione attraverso i simboli, una rappresentazione simbolica. Questi simboli possono essere le parole del linguaggio comune, o i simboli della logica, o quelli di un qualche linguaggio di programmazione. Ora è certamente vero che i sistemi connessionisti, le reti neurali, non inglobano alcuna rappresentazione simbolica degli oggetti con cui hanno a che fare. In effetti, l'approccio connessionistico si può caratterizzare su un piano generale come non simbolico (o più propriamente sub-simbolico), mentre l'approccio cognitivo è un approccio simbolico allo studio della mente. Ma l'identificazione del concetto di rappresentazione con quello di rappresentazione simbolica, che sembra venir fatta automaticamente dai cognitivisti, non ha alcuna giustificazione. Le reti neurali si costruiscono rappresentazioni (se si vuole rappresentazioni mentali) degli oggetti con cui hanno a che fare, ma queste rappresentazioni non sono rappresentazioni simboliche. Si tratta di rappresentazioni quantitative (il pattern di attivazione nelle unità nascoste è un vettore di valori numerici) basate su delle entità, le unità della rete, che non hanno alcuna interpretazione simbolica. Quindi il concetto di rappresentazione (mentale, interna) continua ad aver un ruolo centrale nel connessionismo (se si vuole, differenziandolo in questo modo dal comportamentismo), anche se i cognitivisti lo vedono tanto diverso dal loro concetto di rappresentazione simbolica da non riconoscerlo neppure come rappresentazione. (Parisi, 1989; p.61)

In effetti, intendendo la rappresentazione in questo modo, non vediamo più la necessità di parlare di rappresentazione, quel pattern di attivazioni è una traccia delle relazioni tra i vari neuroni e tra questi e l'ambiente. Ci sembra controproducente reintrodurre questo concetto e ricreare una frattura tra la realtà "oggettiva" e quella mentale, che con il nostro approccio abbiamo superato, proprio con il connessionismo che è per definizione basato sulle relazioni piuttosto che su astratti simboli.

Riteniamo, tuttavia, che qui si intendesse soprattutto differenziarsi dal comportamentismo con cui alcuni aspetti del connessionismo potrebbero essere superficialmente confusi. Riteniamo, infatti, che si intendesse sottolineare soprattutto come l'attività delle reti neurali non possa essere ridotta ad associazioni stimolo-risposta. In realtà avvengono in esse fenomeni molto più complessi che possiamo, per continuità con altri tipi di approcci, continuare a chiamare rappresentazioni, ma tenendo presenti tutte le obiezioni su questo concetto che abbiamo espresso precedentemente.

Per esemplificare, se presentiamo ad una rete diversi esempi di una certa configurazione, ottenuta degradando un certo prototipo, che però non viene mai mostrato alla rete e gli si fanno apprendere delle risposte a questi stimoli, possiamo vedere che apprende a classificare insieme questi esempi molto più velocemente che se gli presentiamo esempi da classificare insieme che non hanno un prototipo di base in comune. Inoltre se gli presentiamo quel pattern prototipo che non aveva mai visto, la sua risposta ad esso sarà ancora più forte che non agli esempi. Possiamo parlare di rappresentazioni di questi pattern, ma, in questo caso, risulta evidente come non si tratti in alcun modo di una riproduzione di oggetti esterni.

"forse dovremo abituarci a nuovi tipi di spiegazione dei fenomeni mentali, diversi da quelli simbolici che hanno una così lunga storia e tradizione alle loro spalle e più simili a quelli che i fisici e in generale gli scienziati della natura danno dei fenomeni fisici."(Parisi, 1989; p.64)

Tramite la cluster analysis è possibile individuare i raggruppamenti che la rete ha fatto delle configurazioni che gli sono state mostrate. Da questi raggruppamenti emerge anche come non si possa fare una distinzione netta tra informazione e rumore, ma come piuttosto quest'ultima emerga spontaneamente dal rumore con l'apprendimento. Dalla cluster analysis risulta che le parole risultano raggruppate in classi basate sul grado di somiglianza delle loro rappresentazioni interne, che in qualche modo corrispondono alle categorie linguistiche che ci sono familiari (verbi - a loro volta divisi in transitivi ed intransitivi -, nomi - divisi in plurali e singolari, comuni e propri ).

Il primato assegnato da Chomsky alla sintassi rispetto alla semantica nello studio del linguaggio naturale appare derivato dall'idea familiare ai logici e agli informatici, nello studio dei linguaggi formali dei sistemi computazionali, di un sistema formale, sintattico, che poi viene interpretato da una semantica. (Parisi, 1989; p.115)

Da tutte queste considerazioni dobbiamo quindi riconoscere:

a) che il pensiero non è qualcosa che avviene solo "nella testa", che non può essere separato dal suo aspetto pragmatico. Che esso prima ancora di essere manipolazione di simboli è manipolazione dell'ambiente, è reazione alle pressioni dell'ambiente;

b) che prima di comprendere gli aspetti culturali del significato quale il significato del linguaggio bisogna indagare il "significato fisico" degli oggetti, inteso come: l'effetto che una porzione della realtà ha sul percepente, in termini di modificazioni direttamente procurate e reazioni e adattamenti immediati del percepente.

Oltre all'aspetto del significato fisico e quello, più familiare, dato dal sistema di conoscenze (per quanto in realtà sia difficile distinguere tra essi in alcuni casi), abbiamo il significato emotivo che assumono gli oggetti per chi percepisce.

E' probabilmente il primo modo in cui si categorizza quello in termini di buono e cattivo ed ha un significato adattativo fondamentale. Ogni essere vivente, dobbiamo ipotizzare, categorizza in termini di favorevole alla propria sopravvivenza (e/o a quella della propria specie) o sfavorevole ad essa. Potremmo quasi dire che è ciò che caratterizza l'essere vivente in quanto tale.

Ricapitolando, possiamo distinguere tre aspetti del significato:

1) Un aspetto immediato, dato dal fatto stesso di interagire con un oggetto, che costituisce semplicemente ciò che l'oggetto fa fisicamente a chi percepisce (in quanto corpo); indissolubilmente intrecciato alle reazioni del corpo e che potremmo definire aspetto fisico del significato.

Normalmente questa dipendenza di causa ed effetto tra qualcosa che avviene nell'ambiente e un cambiamento in chi percepisce non viene considerato significato ed appare una forzatura chiamarlo così. Ma ci sembra appropriata questa definizione, in quanto il significato fisico può essere considerato l'estremo di un continuum, che ha come altro estremo il significato nel senso restrittivo, legato al linguaggio in cui lo intendiamo normalmente. Tenere presente questo continuum ci è utile per capire il significato complessivamente ed accetteremo provvisoriamente di stiracchiare questo concetto includendovi anche quest'aspetto che appare da esso così lontano. Operativamente un significato veicolato dal linguaggio possiamo considerarlo tale proprio in quanto provoca un mutamento (a livello mentale perlomeno, o più pienamente una risposta) in chi lo recepisce. Il nostro concetto di "significato fisico" è molto simile a quello che propone Haken (1988). Haken si propone di introdurre un nuovo approccio all'informazione che non lasci fuori la semantica. L'idea di partenza è che "possiamo attribuire un significato ad un messaggio solo tenendo conto della risposta del ricevente" (pag.16)

Se rappresentiamo formalmente l'evoluzione di un sistema dinamico, abbiamo che questa è data da una parte deterministica ed una soggetta a forze fluttuanti. La porzione deterministica dipende da due tipi di parametri: la situazione di partenza ed i parametri di controllo. Anche se fissiamo questi parametri, il sistema può passare dall'influenza di uno dei suoi attrattori a quella di un altro, per le variazioni apportate dalla parte soggetta a forze fluttuanti. Un messaggio influisce, invece, sulla parte deterministica portando il sistema sotto l'influsso di un attrattore diverso. Se il sistema, dopo aver ricevuto un messaggio, rimane nello stesso stato di partenza, possiamo considerare tale messaggio non significativo.

"L'altro caso è che il sistema sia soggetto ad un nuovo attrattore. In prima approssimazione, assumiamo che questo attrattore è univocamente determinato dal messaggio incidente. Chiaramente, messaggi diversi possono portare allo stesso attrattore. In questo caso parliamo di ridondanza dei messaggi." (pag. 17)

Un messaggio può anche produrre due situazioni diverse che portano a due diversi attrattori a seconda delle fluttuazioni interne al sistema stesso. In questo caso diciamo che l'informazione contenuta nel messaggio è ambigua e l'ambiguità è risolta da una fluttuazione del sistema. Ponendo le cose in questo modo

"La semantica è diventata il problema di studiare la risposta (gli attrattori) dei sistemi dinamici." (pag.22)

2) Un aspetto emotivo, principalmente la valutazione in termini di positivo o negativo, attrazione o repulsione, ma anche valutazioni emotive più sofisticate, frutto di una più raffinata specificazione di questa categorizzazione basilare.

3) L'aspetto mentale del significato; che potremmo considerare, in prima approssimazione, equivalente al sistema di simboli (ma che sarebbe più esatto chiamare significati) con cui abbiamo a che fare nell'AI e nei modelli di memoria semantica.

Proposta operativa

Prima di comprendere il significato nel linguaggio dobbiamo, quindi, chiarire meglio gli elementi base del significato su cui poi si innesta l'aspetto culturale.

Dobbiamo comprendere come ci si mette in relazione fisicamente con una realtà di significati, ogni cosa che ci avviene intorno, e di cui abbiamo coscienza, ha provocato un mutamento fisico in noi, nel nostro modo di rapportarci ad essa. In questo modo ha già un "significato" seppure fisico, ancor prima che venga categorizzata, anzi la categorizzazione viene fatta anche in base ai mutamenti che ha provocato in noi.

Questo aspetto fisico non si riduce alle caratteristiche fisiche dell'oggetto percepito, ma è soprattutto l'accomodamento, l'aggiustamento che il nostro corpo fa, al di fuori e prima del nostro prenderne coscienza. La nostra reazione cosciente, quando c'è, si intreccia con questa reazione automatica, la mediazione emotiva e mentale si combina a questa in un modo molto più complesso di una elaborazione da cui discende una reazione. Più che esserci una direttiva che viene dall'alto, dalla mente, c'è una compartecipazione di tutto l'organismo, infatti il modo in cui si da senso dipende strettamente anche da come si agisce, sia in questo modo automatico, sia in modo consapevole.

Il ragionamento avviene, quindi, in stretta interrelazione con il corpo, non segue delle regole che agiscono su dei simboli, come abbiamo visto, ma si attua utilizzando dei significati, nei modi che il corpo, in base alle sue caratteristiche ed in base alle esperienze, consente.

Abbiamo affermato, un pò provocatoriamente, che il significato viene prima della percezione. Ciò sembra assurdo, in quanto si da per scontato che, se qualcosa non viene percepito da un organismo, non esiste per esso, non potrà essere effettuata su quell'oggetto nessun'altra operazione. In realtà questa precedenza del significato sulla percezione è valida soprattutto se si considera il processo percettivo in tutta la sua complessità. Prima che questo avvenga c'è stato comunque un contatto con l'oggetto, la stessa percezione (intesa come ricerca attiva di alcune caratteristiche volta a categorizzare un oggetto) è una reazione a questo primo contatto "fisico" con l'oggetto, all'aver dato già un senso fisico a quell'oggetto. Questo senso fisico comprende anche degli aggiustamenti che il corpo attua in conseguenza di questo contatto (che, tra l'altro, preparano alla percezione in tutta la sua complessità).

Anche Haken (1988) propone un modello della percezione che parta da una percezione globale e poi ricerchi attivamente nuovi particolari.

Le componenti emotiva e culturale del significato sono poi delle componenti ulteriori della relazione con quell'oggetto, son altre modalità di rapporto con esso, che si innestano su quella fisica, ma che non potrebbero esistere se l'oggetto non avesse, prima di tutto, un significato fisico.

Il contatto fisico con un oggetto, provoca dunque dei mutamenti nell'organismo che viene in contatto con esso. Tra gli altri, uno di questi è la selezione di alcuni elementi che permettano di categorizzarlo (percezione). A questo si accompagna anche una tonalità emotiva legata a quell'oggetto.

La percezione, intesa in questo modo, ci offre uno spiraglio anche su ciò che potrebbe avvenire con il linguaggio. Nella percezione, alcuni elementi di un oggetto, ci danno la stessa reazione che si avrebbe con un contatto pieno con l'oggetto, in altre parole anche se è solo dalla vista che abbiamo degli elementi che ci comunicano la presenza dell'acqua, è come se l'avessimo anche assaggiata, toccata, ascoltato il suo rumore. Poteva bastare una visione parziale della stessa, anche un riflesso che ne indicasse la presenza, ugualmente la reazione sarebbe stata quella dell'acqua. Questa si combina poi con la situazione dell'organismo in quel momento, diversa è la reazione se ha sete, o se ha appena bevuto, o se ha bisogno di bagnarsi per qualche altro motivo. Se quest'organismo è in grado di fare un segno per un altro che indica ugualmente la presenza dell'acqua, l'effetto su chi percepisce questo segno è simile a quello della percezione vera e propria.

Consideriamo, dunque, il significato culturale come l'effetto immaginativo della percezione, il completamento del quadro apportato dalla percezione e nello stesso tempo la preparazione della risposta, il modo in cui l'organismo si pone, dipendentemente dalle sue motivazioni.

Riguardo a questo legame tra percezione e preattivazione ci sono molte prove, in particolare Ruggieri e Petruzziello (1988) hanno mostrato come la percezione di colori caldi abbia come corrispettivo un significativo incremento della temperatura corporea; oppure Ruggieri, Fiorenza, & Sabatini (1986) hanno provato che la decodificazione di alcune espressioni facciali è accompagnata, in chi percepisce, da una contemporanea preattivazione degli stessi muscoli che sono utilizzati da chi produce quell'espressione. Questo fatto, d'altra parte, è già conosciuto come effetto Carpenter secondo il quale: la percezione e la rappresentazione mentale di un movimento provocano degli impulsi mentali che sono riscontrabili a livello elettromiografico. Anche Sperry (1952) insiste sia sul legame tra percezione e preattivazione come preparazione alla risposta, che sul fatto che ciò costituisca un aspetto fondamentale della percezione stessa:

"qualunque sia l'oggetto di una data percezione di un organismo, questi si trova preparato a rispondere mettendosi in relazione con l'oggetto. Questa predisposizione-a-rispondere è assente in un organismo che non abbia percepito nulla... La presenza o assenza di una siffatta potenzialità a reazioni adattative, pronte a scaricare nei circuiti motori, costituisce la differenza tra il percepire ed il non percepire (p.301)".

Non bisogna confondere questa preattivazione, con movimenti motori veri e propri come fa notare Malmo (1975):

"Ovviamente, nelle funzioni motorie, egli [Sperry] include le componenti neuro muscolari e ghiandolari, pur assegnando a queste ultime un ruolo relativamente minore nella sua discussione sul problema Corpo-Mente.[...] Sperry afferma che, a seguito dei suoi studi sul cervello, si è convinto che l'intera «uscita» del nostro meccanismo del pensare, termini nel sistema motorio.

Nei vertebrati più bassi, quali i pesci e le salamandre, nei quali i processi del pensiero sono presumibilmente trascurabili, in pratica l'intero sistema Nervoso è rivolto chiaramente alle funzioni del movimento animale.

Nel contesto della teoria evolutiva darwiniana , è ovvio che la principale funzione del cervello deve essere rivolta al movimento dell'animale, essendo questo vantaggioso per la soddisfazione di bisogni primari e l'evitamento di pericoli.

Un fatto importante che abbiamo appreso dalla Neurologia comparata è questo: dai pesci fino a noi stessi, c'è solo una graduale elaborazione delle strutture cerebrali, con persistenza dei fondamentali principi operativi e sempre con la partecipazione del sistema motorio. E' specialmente significativo che Sperry scegliesse il «pensiero», nell'isolare l'elemento più importante del sistema motorio; a causa della eliminazione delle teorie superate sul pensiero basate su teorie motorie supersemplificate, la psicologia è andata troppo oltre, in apparenza, nella direzione opposta, sicché adesso vi è il pericolo di una svalutazione del sistema motorio.

Come esempio di concetti superati, alcuni psicologi usano credere che per mantenere il cervello in attività sia necessario il feedback dai recettori tendinei muscolari. Noi sappiamo adesso che un tale tipo di stimolazione delle cellule nervose, non è richiesto dal cervello per mantenersi in attività. Questo fatto venne definitivamente provato quando l'elettroencefalografia mostrò che il cervello si manteneva in continua attività anche quando il soggetto veniva immobilizzato (ad esempio mediante anestesia). Altra idea superata era che la contrazione muscolare per se stessa (quella dei muscoli laringei) costituisse il pensiero.

Ciò non è affatto quello che pensava Sperry. Il suo principio afferma che qualunque sequenza comportamentale finalizzata o organizzata, coinvolge il sistema motorio. I muscoli sono il terminale di questo sistema ed ovviamente sono necessari per attività quali il camminare, il correre ed il parlare; ma il principio, come definito qui, non richiede che realmente i muscoli si contraggano quando intervengono attività di pensiero.

Tuttavia quando si adoperi una sensibile metodica elettromiografica, si registra invariabilmente un'attività muscolare durante il pensiero.[...] il sistema motorio partecipa a queste «azioni silenti» poiché l'EMG riflette quanto è uscito dai circuiti cerebrali." (pagg. 88-89)

In questa prospettiva sembra più chiara anche la natura dell'attenzione selettiva. Infatti, avendo posto le cose in questo modo, essa risulta indissolubilmente legata alla percezione, non è che la scelta degli elementi a cui dare importanza, quelli cui ci si relaziona, da cui ci si fa influenzare ed a cui ci si prepara a rispondere. Una porzione di realtà esiste anche a livello categorizzabile; ad essa ci si appresta a dare una risposta globale; gli adattamenti al resto dell'ambiente invece avvengono spontaneamente, solo a livello fisico. E' proprio una difficoltà incontrata in questo tipo di adattamento che richiama una risposta più complessa, o comunque diversa da quella che risulta immediata a livello fisico. E' a questo punto che quella situazione diventa il fulcro dell'attenzione.

Una trattazione più formale della questione deve avvalersi del concetto di attrattore. Abbiamo visto come Haken (1988) descrive il significato come un attrattore verso cui tende l'organismo essendo il messaggio in un certo modo. Alcune variazioni nel messaggio mantengono l'organismo che lo riceve sotto l'influenza dello stesso attrattore, altre lo spostano su un'altro attrattore. E' chiaro che anche le condizioni interne dell'organismo spostano l'attrattore sotto la cui influenza ci si trova. In questo modo possiamo immaginare che ogni cambiamento della situazione può potenzialmente cambiare il suo significato per l'organismo in questione, ma anche che può rimanere ininfluente in quanto non cambia l'attrattore vincente. In questo caso la variazione in oggetto non è, appunto, significativa.

Il livello culturale, o mentale del significato, allo stesso modo, può essere descritto come l'attrattore sotto la cui influenza si trova il soggetto, in dipendenza delle condizioni date dagli attrattori di livello fisico ed emotivo. Allo stesso modo che a quel livello, anche a questo si è comunque sotto l'influenza di un attrattore. In questo modo in ogni caso si dà anche un significato mentale alle situazioni, ma cambiamenti fisici possono portare anche dei cambiamenti a livello mentale. I significati mentali configurano la situazone in un determinato modo e ciò può alterare gli attrattori a livello fisico e quindi la risposta, gli adattamenti (che, come abbiamo visto, in questo tipo di descrizione, sono l'equivalente dell'aver attribuito un significato fisico) ad una determinata situazione.

Descrivendo le cose in questo modo è mantenuta la gradualità del reale, la continuità delle situazioni e non c'è alcuna frattura tra realtà dei significati e mondo reale. Inoltre abbiamo un modello, che può essere verificato sperimentalmente, dell'interazione tra i vari livelli di realtà.

L'applicazione di questo modello alla progettazione di un organismo artificiale

Come le difficoltà incontrate dall'approccio classico all'intelligenza artificiale nei confronti del significato hanno mostrato, i limiti di quella concezione dello stesso, ora una conferma della validità di questa sua diversa concezione potrebbe venire dall'applicazione di questi concetti a quegli stessi aspetti.

Abbiamo visto che il nostro pensiero non può essere paragonato ad un sistema inferenziale che possiede una serie di postulati ed una serie di regole che ci permettono di lavorare su questi. Il nostro pensiero è più di questo, perché è continuamente in interazione con la realtà fisica; perché nuovi postulati o nuove regole possono venire direttamente dalla realtà fisica; perché delle conclusioni che rispettano tutte le regole possono non corrispondere a quello che si ha nella realtà e ciò porta a perfezionare le regole, a rimettere in discussione dei postulati, ad aggiungerne degli altri.

Tutto ciò non può avvenire se rimangono rigidamente separati l'aspetto "pensiero" e l'aspetto "azione" come avviene nelle macchine tradizionali, quelle che fanno riferimento alle teorie dell'intelligenza artificiale. E' normale che fosse così in quanto si partiva da quello che sembrava l'aspetto più evoluto del pensiero, quello logico, e si cercava di riprodurre quello, non c'era nessun interesse ad implementare il pensiero più imperfetto, quello che porta agli errori. Ma quando questa operazione è riuscita alla perfezione ci si è accorti che serviva anche il pensiero in grado di sbagliare, quello capace di sfumare i concetti, i "significati", il pensiero un pò meno logico, ma più "pratico". Questa operazione è stata fatta però sempre dall'alto, cercando di sfumare ciò che era netto, mantenendo come meccanismi di funzionamento quelli logici, considerando il pensiero come qualcosa che aveva delle regole sue proprie, indipendenti dall'interagire di un organismo con l'ambiente.

"Il fatto di basare la rappresentazione della conoscenza sul linguaggio ha anche come conseguenza che quando si cerca in intelligenza artificiale di cogliere gli aspetti non precisi, probabilistici, flessibili del pensiero, si procede modificando e aggiungendo struttura agli schemi di rappresentazione che sono nati invece per cogliere gli aspetti precisi e rigidi, con l'evidente assunzione che siano questi ultimi quelli fondamentali. Il linguaggio fa lo stesso." (Parisi, 1989; p.136)

Nel momento in cui si è preteso da queste macchine delle cose, che a noi sembrano più semplici di altre complicatissime elaborazioni logiche che già fanno, ci si è resi conto delle difficoltà date proprio dall'impostazione, che non potevano essere superate semplicemente aumentando le capacità di calcolo, migliorando gli algoritmi di funzionamento. Il semplice muoversi in un ambiente normale di un automa si è rivelato più difficoltoso del calcolo delle traiettorie dei pianeti, difficoltà ancora più impreviste sono quelle riscontrate nel riconoscimento di oggetti o della scrittura manuale. Queste difficoltà sono la manifestazione di almeno due errori in partenza quello di considerare la logica fondamento base del pensiero e quello di considerare il pensiero separabile, astraibile dall'organismo pensante.

In intelligenza artificiale si ha la tendenza a pensare che vi sia una separazione netta tra aspetti elementari, basici, più vicini alla realtà fisica, dell'intelligenza ( come la visione, il riconoscimento del linguaggio parlato, il comportamento motorio) e aspetti a più alto livello e più sganciati dalla realtà fisica (la rappresentazione della conoscenza, l'inferenza, la soluzione dei problemi la pianificazione). (Parisi, 1989; p.137)

Se le componenti basse sono A, quelle alte non sono B, cioè una cosa completamente diversa e separata da A, ma sono A+B, cioè qualcosa che conserva elementi delle componenti basse e in più vi aggiunge qualche altra cosa. E in effetti, questa analisi sembra venir confermata dalle difficoltà che l'intelligenza artificiale sempre più chiaramente incontra nell'affrontare le proprietà di flessibilità, robustezza, sensibilità al contesto e modificabilità adattiva delle stesse componenti alte dell'intelligenza.(Parisi, 1989; p.139)

Si è tentato di superare queste difficoltà con l'impiego delle reti neurali che riproducono alcuni aspetti del funzionamento neuronale, anche se lo semplificano e lo banalizzano. E' probabilmente impossibile che si riesca mai a riprodurre esattamente l'interazione dei neuroni, ma non è questo l'obiettivo, per ora si sta studiando come da un sistema complesso di questo tipo emergano dei comportamenti globali paragonabili ad alcuni che riscontriamo nel comportamento dei neuroni reali. E' evidente che non si pretende con questi sistemi di riprodurre realmente ciò che avviene al livello dei neuroni reali, ma piuttosto di indagare alcuni aspetti della complessità, che riguardano anche il comportamento dei neuroni, in una situazione sperimentale che permetta un più agevole studio degli aspetti che ci interessano. Nel caso nostro abbiamo voluto simulare la forma più basilare possibile della formazione del significato. Ciò sia per capire meglio il significato anche nella sua forma più complessa, oltre che per metterne alla prova la concezione teorica precedentemente illustrata. I due aspetti della questione sono strettamente intrecciati perché uno permette di far chiarezza sull'altro.

L'ipotesi era dunque che un organismo immerso in un ambiente dà significato a tutto ciò che percepisce, percepisce in quanto dà significato, più che percepire e poi dare significato. Il significato è insomma qualcosa di molto fisico, primordiale più che essere un derivato di qualcos'altro.

Ci sono aspetti del significato che sono molto più complessi, che fanno riferimenti ad altri significati, essi costituiscono il suo aspetto mentale, culturale che è, però, inscindibilmente legato alla sua componente fisica. Non si può partire dall'aspetto culturale del significato ed arrivare in un secondo tempo alla corrispondenza tra questo e gli oggetti "concreti".

Solo se riusciremo a non trascurare nessuna delle componenti del significato che abbiamo individuato, potremmo sperare di progettare un sistema artificiale capace di produrre propri significati e di operare su di essi in modi creativi, non precedentemente programmati.

Nel fare ciò dovremo quindi dare per scontato che ci sia un significato fisico che non è necessario progettare, c'è sempre, purché sia "reale" il rapporto del sistema con l'ambiente che deve percepire. Questa realtà è data sia dalla possibilità da parte dell'automa di manipolare l'ambiente che da quella di subire gli effetti di quest'ambiente, di esserne influenzato. Ciò si può ottenere se il sistema agisce sull'ambiente ed è influenzato da alcune cose che accadono in esso. Cioè se un contatto (nel senso più ampio della parola) con un oggetto, non si risolve nella registrazione di questo evento in un qualche magazzino, ma ciò modifica tutto l'organismo. Questo si ottiene in modo naturale se si utilizza una rete neurale invece di un algoritmo. L'apprendimento è, in questo senso, sempre un apprendimento di significati, perché porta ad automodificarsi ed, in questo modo, a reagire in modo diverso ad alcune relazioni tra alcuni aspetti dell'ambiente ed il sistema stesso, quindi a dare significati diversi a quelle situazioni. Questo però non è il significato nel senso restrittivo con cui si intende solitamente, cioè quello dato dal linguaggio - e che qui consideriamo come terzo aspetto del significato. Ma è proprio in questo ambito che si può capire l'opportunità di questa forzatura, infatti un organismo non dotato di linguaggio che cambia il proprio comportamento in considerazione del mutare delle condizioni non ha dato un significato a quelle condizioni?

Se ci distacchiamo da una visione logocentrica ed accettiamo che ogni organismo, nel suo piccolo, da significato ad alcune cose che gli accadono intorno nel momento in cui apprende a reagire in un modo opportuno (per i suoi scopi) ad alcuni aspetti della realtà a cui prima reagiva diversamente, non possiamo affermare che è cambiato il significato fisico dato a quegli aspetti della realtà?

Inoltre un tale sistema dovrà avere degli scopi da perseguire, così che il primo modo in cui la realtà gli si presenterà sarà in termini di favorevole o meno a questi scopi.

Questi scopi possono essere uno o più di uno ed in quest'ultimo caso la loro importanza potrebbe essere ordinata gerarchicamente e l'ordine variare nel tempo a seconda delle circostanze. Possiamo così dire che quest'organismo agisce nell'ambiente, categorizzando autonomamente le varie situazioni e dando loro un "significato" fisico ed emotivo.

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