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SVILUPPO DELL'INTELLIGENZA BIOLOGICA

Definire l'intelligenza

Perché un discorso sull'intelligenza?

Perché i pregiudizi su quel complesso di funzioni che chiamiamo comunemente "intelligenza", dovuti alla misconoscenza dei processi di apprendimento che portano alla conoscenza, sono profondamente radicati non solo nell'uomo della strada, ma purtroppo anche negli insegnanti, i quali sono chiamati, fra l'altro, ad essere dei tecnici che svolgono a livello operativo la funzione di addestratori dell'intelligenza. La funzione ed il lavoro, che la società attribuisce al docente, di tecnico dell'istruzione culturale di base è pari solo al compito dei genitori, i quali a loro volta devono integrarsi con la scuola e gli insegnanti, al fine che il procedere dell'apprendimento costituisca un momento non isolato della formazione e dell'educazione dei loro figli.

L'insegnante si trova quindi ad occupare una posizione centrale e a rivestire un ruolo da protagonista, fra scuola e famiglia, nella promozione dello sviluppo e della crescita del cittadino, cui si richiede parimenti sia che sappia leggere, scrivere e far di conto, sia che sappia inserirsi nel gruppo sociale con il contributo della propria individualità.

Con questo volumetto si intende fornire agli insegnanti un punto di riferimento e alcune informazioni di base per il loro aggiornamento professionale.

Definire esattamente e senza suscitare dubbi e critiche che cosa si intenda col termine "intelligenza" e quindi cosa esso contenga è molto arduo ed è forse possibile a livello fisiologico. Ciononostante noi abbiamo usato anche nel titolo del presente volumetto, la parola intelligenza. Ma sia il fatto che sia quasi impossibile oggi definire l'intelligenza sia il fatto che sia necessario usare il termine, soprattutto rivolgendosi a degli insegnanti, non è probabilmente una situazione casuale e slegata da un terzo fatto: che questo termine incombe con la forza di un mito soprattutto nella scuole, dove si pratica l'apprendimento. Ora per apprendere qualcosa, qualsiasi cosa, è opinione consolidata da decennali condizionamenti che lo strumento necessario e sufficiente sia appunto una più o meno buona dose di intelligenza. E così ritorniamo da capo a chiederci di che cosa sia fatto tale strumento. Ebbene pare che nessuno lo sappia con chiarezza.

Secondo alcuni addirittura è un termine talmente ampio, polimorfo e astratto da non riuscire a definire nulla. Secondo altri (Spencer, Galton, Spearman, ecc...) invece indicherebbe una funzione o abilità generale superordinata e dominante funzioni, capacità e abilità specifiche. E' il concetto di mente che dirige e sovrintende a processi più bassi in gerarchia, di tipo fisiologico. Altri ancora l'hanno definita, a nostro avviso, in maniera più concreta e empirica come una capacità di compiere degli atti operativi con validità di adattamento. Ad ogni conto riportiamo alcune delle definizioni fornite dagli psicologi inviati al simposio pubblicato ne Journal of Educational Psycology del 1911. Secondo Terman l'intelligenza è "l'abilità" di pensare astrattamente"; per Woodrow l'intelligenza è "la capacità di acquistare capacità"; per Thorndike l'intelligenza consiste nel "potere di dare buone risposte dal punto di vista della verità o dei fatti"; Vernon ha raggruppato i diversi punti di vista (le diverse definizioni) in tre categorie principali, biologiche, psicologiche, operazionali; Freeman le divide in quelle che pongono l'accento sul potere di adattamento all'ambiente, quelle che mettono l'accento sulla capacità di apprendere e quelle, infine, che pongono l'accento sulle capacità di usare il pensiero astratto.

La prima categoria, come rileva Vernon è molto generica. Infatti molte persone di cui non si può negare l'eccezionale intelligenza, Pascal, Kafka ecc., sono stati drammaticamente incapaci di adattarsi al loro ambiente fisico sociale.

Non prendendo in considerazione la categoria biologica perché generale e radicale restano le altre due di definizioni psicologiche e operazionali dell'intelligenza, e cioè l'intelligenza che i test misurano, ma, come è stato osservato, forse è di una crudezza che la rende inutilizzabile; anche se viene modificata e raffinata, resta essenzialmente tautologica.

Un'altra definizione, certamente non esente da critiche, che si colloca verso le estremità dell'adattamento generale, può essere quella secondo cui "L'intelligenza è un aggregato di capacità, o la capacità globale dell'individuo, di agire intenzionalmente, di pensare razionalmente e di operare in modo efficace sul suo ambiente" (Wechsler).

Burt definisce l'intelligenza come un'abilità cognitiva innata. Ma poiché la misurazione dell'intelligenza attraverso i tests psicologici non si sottrae alle influenze culturali, tale definizione esclude le abilità mentali rilevate proprio attraverso i reattivi psicologici.

Alcuni psicologi (Hebb, Cattel) per sfuggire alle difficoltà che comporta una definizione dell'intelligenza, parla di due forme di intelligenza: il primo di intelligenza A e B (Hebb) e il secondo di una forma "fluida" e di una "cristallizzazione".

Le distinzioni dei due psicologi sono piuttosto simili: per intelligenza A o "fluida" si intende la potenzialità genetica dei singoli, per intelligenza B o "cristallizzata" quella che risulta dall'esperienza, dall'apprendimento e dai fattori ambientali.

Un altro modo per superare le difficoltà nella definizione di intelligenza consiste nel ricorrere ad una definizione operativa.

Noi per intelligenza in questo lavoro intendiamo la capacità di adattarsi all'ambiente circostante, di superare gli ostacoli e di risolvere i problemi con risposte che si situano nella norma delle reazioni comportamentali che producono gli individui nello stesso ambiente, e che possono essere misurate anche coi reattivi di abilità mentale. Generalmente questo avviene attraverso una serie di operazioni che in genere sono alla portata delle capacità di tutti relativamente a ciò che l'ambiente di ciascuno gli richiede. Per sopravvivere nel suo ambiente non è necessario che un topo sappia leggere, così come di un uomo di un paese industrializzato ha maggiori possibilità di sopravvivere e di bene adattarsi, se sa leggere e scrivere, ma non è necessario che sappia scrivere una Divina Commedia.

In ogni caso, del complesso di attitudini che chiamiamo intelligenza, ciò che abbiamo sotto gli occhi e che possiamo conoscere e controllare sono i comportamenti degli individui rispetto ai compiti loro assegnati. Per cui quello che possiamo fare di produttivo a livello di delimitazione e di definire del concetto di "intelligenza", si riduce allo studio di fattori che provocano di volta in volta determinati comportamenti di adattamento e alla catalogazione di tutti i fattori empiricamente determinanti e definiti. Tale operazione infine ci consente di raccogliere un curpus di andamenti e di leggi che ci possono guidare nel compito dell'insegnamento. Insomma, posto che il termine intelligenza è piuttosto ambiguo, differentemente usato e, secondo i casi e gli autori, esteso a diverse funzione atteggiamenti, noi ci atteniamo in linea di massima al criterio, condiviso da Binet, di considerare comparativamente e quindi relativisticamente la misurazioni di comportamenti di risposta dati rispetto a dati problemi o prove (test) da risolvere, o comunque superare. Soprattutto perché le nostre esigenze si circoscrivono fortunatamente a ciò che si richiede nell'ambito scolastico (settore applicativo circoscritto e preciso).

In definitiva anche la valutazione del profilo scolastico espressa in voti costituisce una misurazione dell'intelligenza, la quale può essere opportunamente integrata e fornire utili informazioni all'insegnante se confrontata con le misure standardizzata dei test di livello e di abilità mentale. Per esempio noi potremmo trovare che un soggetto a basso profitto ottiene buoni o anche ottimi punteggi ai test di livello intellettivo (o viceversa). Questo significa solo che la classificazione in quanto tale non serve a nulla o piuttosto è controproducente, mentre una operazione produttiva consiste nel rendere avvertito e sensibile il docente che nel primo caso (basso profitto e alto punteggio di livello) vi è senz'altro una sotto utilizzazione dell'insegnamento da parte del soggetto. Tale lacunosità situazione nell'apprendimento può avere una o più cause (Per es. il semplice rifiuto da parte di un bambino creativo di sottomettersi ad un passo per lui troppo lento e standardizzato della didattica dell'insegnante, ecc). Oppure nel caso opposto (alto o sufficiente profitto e basso livello intellettivo ai test) vuol dire che l'insegnante ha potuto utilizzare e saputo curare nel migliorare dei modi tutta la potenzialità del soggetto, stimolandone adeguatamente le capacità di apprendimento.

Quindi non si può istituire un'equazione lineare fra risultati ai test di livello e rendimento scolastico, anzi è più veritiero e soprattutto, più utile, partire sempre dal presupposto diametralmente opposto. Ciò che anche perché i programmi della scuola elementare e dell'obbligo in genere sono tagliati per consentire a tutti (salvo rarissimi casi molto gravi) di produrre un rendimento molto sufficiente. Per esempio un bambino con età mentale di 4 anni appena può tranquillamente, se ben guidato, acquisire i contenuti programmatici della I elementare (cfr. oltre). Tali capacità e possibilità di apprendimento e adattamento alle situazioni proposte dall'ambiente, che chiamiamo "intelligenza" si sviluppano da quote minime (diciamo zero) a livelli sempre più consistenti attraverso un continum parallelo alla crescita psicofisica generale e viene chiamato sviluppo genetico dell'intelligenza.

Lo sviluppo ontogenetico dell'intelligenza

Il concetto di sviluppo ontogenetico dell'intelligenza ha costituto e costituisce tuttora oggetto di ricerca e di dibattito in campo psicologico: se fosse vero. come comunemente si credeva, che l'intelligenza cessa di crescere verso i sedici anni, un allievo di primo liceo avrebbe già raggiunto il massimo del suo sviluppo intellettuale. Alcune ricerche tendono a protrarre nell'arco dell'ontogenesi il livello massimo sviluppo delle capacità intellettive. Brodway e Robinson asseriscono di poter stabilire una crescita continuativa del Q.I. dei loro soggetti fin verso i diciotto anni e mezzo. Wechsler d'altro canto, attraverso la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) accerta una crescita delle capacità intellettuali fino a 30 anni, con una graduale decrescita dai trenta fino ai sessanta anni.

Anastasi obietta che tali dati non possono essere consigliati attendibili, in quanto i punteggi più alti ottenuti dai soggetti giovani nei confronti dei soggetti adulti potevano essere dovuti ad una più completa e migliore istruzione scolastica. Questo riporta alla dibattuta questione sul che cosa gli psicologi realmente misurano attraverso i loro strumenti.

Bayley (1959) in base ai suoi dati ottenuti attraverso ricerche verticali, sposta ulteriormente il culmine del processo di sviluppo delle capacità intellettive, asserendo che gli individui continuano a crescere intellettualmente fino a cinquant'anni.

L'idea persistente, nel recente passato, che lo sviluppo sia predeterminato e proceda per stadi fissi e ancora rigidamente alla maturazione fisica (cioè per classi di età), ha nociuto ad una concezione educativa e inculturativa aderente ai reali ritmi di sviluppo del bambino.

In particolare ha prodotto, sul piano concreto, la ripartizione della programmazione educativa per classi di età e non per gruppi di capacità di apprendimento (vedi la struttura delle nostre scuole) e inoltre ha rallentato e rallenta tuttora un processo di promozione della educazione-scolarizzazione precoce del bambino.

Vi erano studiosi che ritenevano che l'esperienza (e quindi l'insegnamento e l'addestramento) in età precoce non avesse importanza in quanto ritenevano che il bambino si sviluppava per gradi o compartimenti chiusi e quindi attribuivano ad una cosiddetta "maturazione intrinseca" legata all'età un valore determinante nel condizionare le capacità di apprendere del soggetto. Tali posizioni genericamente genetiste si rifacevano a idee teoriche, più che a dati sperimentali, e derivanti dalla convinzione, profonda e diffusa nella cultura occidentale fin dai tempi di Darwin che il patrimonio genetico influisce molto direttamente su tutte le funzioni comportamentali.

Parlando tuttavia del problema dello sviluppo dell'intelligenza nell'individuo non si può non tenere conto delle variabili che riguardano il complesso sistema individuo ambientali, e della probabilità che l'esercizio mentale intenso aumenti l'abilità funzionali: è chiaro, ad esempio che un ragazzo che a 14 anni abbandoni la scuola e si dedichi ad attività di routine per la maggior parte della giornata, troverà probabilmente pochi stimoli ambientali alla propria crescita intellettuale; o altrettanto una ragazza che, dopo gli studi, si dedichi tutta alla routine intrafamiliare, avrà probabilmente meno occasioni di stimolazioni che favoriscono lo sviluppo delle sue capacità intellettive. Inversamente una persona anziana che durante l'arco della sua ontogenesi abbia coltivato interessi intellettuali e sviluppato capacità creative, potrà mantenere buone abilità funzionali. Quindi l'esercizio e addestramento funzionale sono fattori fondamentali per l'aumento delle attitudini intellettive.

Quanto al concetto di capacità intellettuali, in convegno sul tema dei superdotati intellettuali si tentò una revisione dei punti di vista sullo sviluppo cognitivo. Le conclusioni portarono a sottolineare l'importanza di considerare multi dimensionalmente l'abilità intellettuale, e di considerare la forte incidenza che le variabili motivazionali e di personalità hanno nello sviluppo intellettivo ontogenetico. Queste due asserzioni sembrano scontate e non originali, e tuttavia nella prassi educativa e pedagogica sono tuttora troppo spesso ignorate o dimenticate.

Un altro punto degno di nota e la cui importanza va sottolineata è che l'intelligenza è suscettibile di modificazione: anche questa asserzione sembra ormai scontata e ampiamente accettata, tuttavia spesso si ignora l'estensione e la possibilità di indurre modificazioni. Inoltre, queste ultime intendono a venire a volte sottovalutate (come nel caso ad esempio di un insegnante che esclude che un bambino possa migliorare il suo rendimento, in quanto figlio di analfabeti, o di alcolizzati, ecc.) oppure sopravvalutare (come, ad esempio, un genitore di un bambino mongoloide che chiede all'insegnante di portare il figlio allo stesso livello dei suoi compagni di scuola e di età con una super stimolazione o un insegnamento individualizzato). E' già nota la distinzione fatta da Hebb di due tipi di intelligenza, (A) potenziale (B) data dall'esperienza, ed è importante riconoscere che l'esperienza è necessaria per lo sviluppo del potenziale genetico di ogni individuo, ma, d'altro canto, è bene tenere presente che anche il potenziale innato, pone un limite alla possibilità di recepire nuove esperienze, (ma questo certamente non per i programmi scolastici), e che diversi individui posseggono potenziali non uniformi per tutti i settori disciplinari della conoscenza umana.

Generalmente si indicano col termine di intelligenza sia il potenziale originario innato (forma A), sia il livello di sviluppo definito e funzionale (forma B) o addirittura si sovrappongono entrambe (A+B), creando quindi quasi sempre una più grossa confusione.

In ogni modo la distruzione fra intelligenza di tipo (A) e intelligenza di tipo (B) è più che altro scolastica e puramente teorica, poiché quel particolare fenotipo che è il comportamento è l'espressione di un genotipo ampiamente filtrato dall'ambiente, sia intrauterino che extrauterino.

Per cui un bambino di 6 anni di età esprime un'intelligenza che "contiene" 6 anni e 9 mesi di storia personale: cioè di esperienze ambientali, sia positive che negative, le quali hanno profondamente plasmato il suo sistema nervoso qualsiasi sia il suo patrimonio genetico.

E' quindi importante tenere presente che la forma (A) non può essere misurata e quantificata se non in maniera impura, in quanto può venire misurata su comportamenti di individui reali (e non potenziali) i quali posseggono inevitabilmente un loro bagaglio di esperienza. Per cui tali eventuali misurazioni indirette e impure della forma (A) dell'intelligenza non possono mai essere considerate veri e propri indici delle capacità genetiche soltanto. In realtà ciò che viene misurato con gli usuali tests di livello e con la valutazione del profitto è la forma funzionale, attuale e culturale dell'intelligenza: cioè la (B) . Quindi dal punto di vista pratico e scolastico è opportuno ritenere che la capacità innate di un individuo anche se notevoli, possono non essere sfruttate e possono restare solo allo stato potenziale; mentre, d'altro canto con un buon addestramento e un buon curriculum di apprendimenti, anche potenziali (A) scarsi possono essere utilizzati bene e quindi produrre risultati di rendimento più che sufficienti.

Nella figura 1 è rappresentato graficamente il rapporto fra l'area della potenzialità e quella della funzionalità di un individuo qualsiasi. La linea a tratto intero esterna rappresenta i limiti della intelligenza innata; all'interno di questo contorno, la linea tratteggiata rappresenta e circoscrive un'area più fluida, determinata dalle esperienze di apprendimento e di addestramento, che costituisce il reale livello di funzionamento effettivo dell'attività intellettuale di quell'individuo.

L'individuo, di cui la figura rappresenta le potenzialità e le reali capacità intellettive, non ha evidentemente usufruito di buoni occasioni e stimoli all'apprendimento e all'addestramento, in quanto la sua area funzionale è molto più piccola di quella potenziale. Per cui è ancora passibile di insegnamento, che, se gli fosse impartito adeguatamente, gli consentirebbe di aumentare le sue capacità intellettive reali. Con animali di laboratorio (topi e ratti) è stato verificato sperimentalmente un aumento di quantità e quindi di peso della corteccia cerebrale in quegli animali che venivano allevati in ambienti ricchi di stimolazioni e di addestramento (e quindi di esperienza prodotta dall'esterno), rispetto ad altri (di pari patrimonio genetico e quindi di pari possibilità innate) che però usufruivano di situazioni più povere di apprendimento-addestramento (esperienze). Nell'uomo non sappiamo se si verificano analoghe modificazioni anatomiche (peso della corteccia) e biochimiche (quantità di sostanze inter e intra-neuronali) come effetto dell'addestramento-apprendimento, però possiamo misurare direttamente vari livelli dello stesso effetto manifestantesi col comportamento (cfr. paragrafo sui progetti per insegnare l'intelligenza).

Fra le capacità di adattamento ereditate dall'organismo, una delle più interessanti è costituita dal fenomeno dell'imprinting, approfondito e sistematizzato da Lorenz intorno al 1935.

Le prime osservazioni, effettuate su degli uccelli nidifugi, portarono alle seguenti conclusioni: a) i legami sociali di ogni tipo, filiale-parentale, sessuale, d'amicizia, si instaurano molto precocemente nella vita di un individuo: all'inizio del suo sviluppo ontogenetico e in un periodo di tempo molto limitato, detto "periodo critico". b) Tali legami si riferiscono al primo oggetto, cui l'individuo venga esposto dopo l'apertura del guscio, dotato di movimento ed emittente un suono. Si tratta quindi in tali casi di apprendere due segnali semplici che coinvolgono la percezione visiva (il movimento) e uditiva (il suono). c) Entro i limiti di durata del periodo critico, pochi minuti di esposizione sono sufficienti a stabilire il legame fra individuo e segnale indicatore dell'oggetto presentato per primo mentre gli effetti del comportamento del soggetto durano per il resto della vita e sono incancellabili. I segnali restano cioè stampati (imprinted) nell'organismo di chi fa tale esperienza. Se tale fenomeno si verificasse con le caratteristiche sopraindicate in tutte le specie animali, si potrebbe veramente parlare della forma geneticamente più programmata (innata) e meno plastica di condizionamento ambientale e quindi di adattamento sociale.

Ma tale fenomeno è verificabile solo negli uccelli nidifugi (oche, anatre, galline, tacchini....) e in alcune specie di ungulati (pecore, cervi...). In tali ultime specie si sono osservati periodi critici di settimane e di mesi, e non di poche ore o giorni, e i segnali cui il soggetto reagisce sono più vari per estensione e complessità di quelli osservati negli uccelli, ne si notano fissazioni così rapide ed irreversibili, anzi il contrario.

H. Harlow e altri autori preferiscono parlare più di periodi "sensibili" che "critici" nell'analisi dei fenomeni di deprivazione sociale nei macachi,, poiché i periodi definiti critici hanno una durata di ore o al massimo di qualche giorno, mentre i periodi di apprendimento che interessano il comportamento degli animali da lui studiati (scimmie cinomorfe) si estendono fino a coprire un arco di diversi, entro il quale maturano le condizioni ontogenetiche dell'organismo di pari passo con la presa di contatto con situazioni socio-culturali molto varie.

Nel fenomeno dell'imprinting, come è definito da Lorenz, l'apprendimento è istantaneo, settoriale e praticamente irreversibile; gli effetti invece che si riscontrano nei primati, durante il periodo sensibile, sono graduali, diffusi e parzialmente reversibili.

Scimmiette, soggette ad isolamento sociale totale *, durante i primi tre mesi di vita, mostrano un recupero rapido e completo, quando vengono allogate con coetanei e si permette loro di interagire liberamente. Scimmiette, isolate totalmente per i primi sei mesi di vita, non riescono ad avere un recupero totale nell'inserimento ed adeguamento sociali, ma mostrano gravi disturbi a diversi livelli di comportamento, dal gioco alla sessualità; e tali disturbi persistono per anni fino alla maturità, tanto da far ipotizzare che siano intervenuti dei cambiamenti irreversibili. Si può quindi arguire che per tale specie di Scimmie Rhesus, il periodo sensibile minimo si estende dai tre ai sei mesi con un'elasticità che può farlo potrarre fino ad un anno di età. E poiché dodici mesi di isolamento totale provocano danni comportamentali molto maggiori di quelli provocati da sei mesi di isolamento, si può dedurre che all'interno di tale periodo la quantità di danni è proporzionale alla durata dell'isolamento.

Per tale specie umana il concetto interpretativo dell'imprinting è stato ripreso da psicologi che anno analizzato il comportamento di risposta alla madre in bambini newyorkesi a 6 settimane, 6 mesi e 1 anno di età, utilizzando tecniche di osservazione etologiche.

Gli autori ritengono che vi siano due grossi periodi sensibili nel processo di socializzazione dei piccoli della nostra specie; il primo, caratterizzato dalla possibilità di acquisire un imprinting nel senso stretto del termine; e quindi nell'ambiente studiato, un imprinting generalizzato alle figure umane. Tale periodo critico è caratterizzato dalle capacità del bambino di fissare visivamente e auditivamente "l'oggetto umano".

La prima fase inizierebbe entro le prime 6 settimane di vita e finirebbe entro il quarto mese. La seconda fase, non necessariamente distinta dalla prima ma sovrapponibile anche più lunga, inizierebbe quando il bambino comincia a percepire delle tensioni interne e a sperimentare le possibilità di liberarsene e di alleviarle nel rapporto con la figura materna. Tale fase si conclude generalmente entro il settimo mese, quando il bambino inizia ad interessarsi (in un certo senso a "vedere per la prima volta") e a distinguere i familiari dalle persone estranee; quando cioè comincia a percepire un mondo extrafamiliare. Sembra che l'inizio dell'inculturazione sociale e dell'acquisizione di un ruolo affondi a tale età le sue prime radici, procedendo poi con diversi ritmi fino all'adolescenza.

Per l'apprendimento del linguaggio e quello intellettivo in genere pur non essendovi materiale sperimentale strettamente specifico a disposizione, si può con certezza ritenere che le stimolazioni molto precoci sono utili.

La Montessori (1909) aveva intuito l'esistenza nel bambino di periodi "sensitivi" molto prima che Lorenz classificasse con imprinting (Pragung) fenomeni analoghi. Ella scrive, fra l'altro, "sembra che in alcune età ci siano possibilità di acquisti psichici che non sono più possibili in altre età. Un fatto chiaro e abbastanza accessibile a tutti è la capacità più volte citata che hanno i piccoli bambini di ricordare e riprodurre i suoni della lingua e di apprenderne le parole. L'età in cui si stampa il linguaggio, in modo indelebile, è il "periodo" in cui la natura ha posto una "sensibilità straordinaria" destinata a fissare gli accenti e le parole".

Tale intuizione iniziale la Montessori l'ha ripresa e approfondita in altre sue opere successive, al punto che i periodi sensitivi sono considerati uno dei cardini della sua pedagogia. Infatti nel 1938 così delinea la teoria sui periodi sensitivi: "si tratta di sensibilità speciali, che si trovano negli esseri in via di evoluzione, cioè negli stadi infantili, le quali sono passeggere e si limitano all'acquisto di un determinato carattere: una volta sviluppato questo carattere, la sensibilità finisce: così ogni carattere si stabilisce con l'aiuto di un impulso, di una possibilità passeggera. Dunque la crescenza non è qualche cosa di vago, una fatalità ereditaria insita negli esseri, ma è un lavorio guidato minuziosamente da tendenze periodiche o passeggere che danno una guida, perché spingono ad una attività determinata, la quale differisce talvolta in modo evidente da quella dell'individuo allo stato adulto".

Come si può vedere la Montessori aveva osservato acutamente il comportamento infantile, sì da giungere a teorizzare nelle sue linee fondamentali ciò che più tardi verrà "riscoperto " e battezzato come fenomeno dell'impriting, che per le specie umane presenta quelle caratteristiche di fondo "fasi o periodi sensibili" descritti dall'autrice in particolare nei processi di apprendimento del linguaggio.

"Nella vita non si può retrocedere e quello che la mente acquistò durante il suo periodo sensitivo è il permanente acquisto di tutta la vita, che non si può però mai più acquisire in un'altra epoca".

Qualche decennio dopo le prime intuizioni e teorizzazioni della Montessori, tale fenomeno fu riscoperto e studiato negli animali e chiamato impriting (stampato), come felicemente aveva intuito la Montessori. Prima però che si ritornasse a studiarlo nell'essere umano dovevano passare circa 60 anni.

Ci pare di fondamentale importanza per l'insegnante conoscere e comprendere tali fenomeni biopsichici, che ci rivelano la possibilità di inserire il programma dell'apprendimento di abilità e di nozioni nei momenti in cui il bambino è più recettivo, e, quindi può apprendere più facilmente e con alti rendimenti. Invece che costringersi ad adottare programmi di recupero, anche laddove non sarebbero per nulla necessari, se vi fosse stato un banale e consapevole intervento precoce. In tale lavoro la famiglia, l'asilo nido e la scuola materna sono momenti indispensabili e indissolubilmente legati al lavoro e quindi al progetto psicopedagogico e didattico del docente della elementare e della media dell'obbligo.

Alcuni studiosi fanno l'ipotesi dell'intervento di un'atrofia di centri nervosi o di vie nervose, qualora non vengono stimolate al momento ontogeneticamente opportuno.

G. Doman (1969. ed. it.) sostiene l'importanza di iniziare l'insegnamento della lettura a tre anni di età, poiché il bambino a quella età è già completamente in grado di apprendere a leggere, purché gli venga fornito lo strumento adeguato per farlo ed in particolare una scrittura a caratteri molto grandi. Egli sostiene infatti, in base ad una sperimentazione più che sufficiente, che se il piccolo "normale" non legge a tre anni è perché i caratteri della scrittura sono troppo minuti. Persino bambini cerebrosi acquisiscono la capacità di leggere prima di 6 anni. Inoltre Doman sostiene che il bambino di meno di 5 anni d'età può assorbire un'immensa quantità di nozioni; può accrescere le proprie conoscenze a un notevole ritmo; può memorizzare e ritenere tante più nozioni di uno di sei anni; egli ha un grandissimo desiderio-bisogno di apprendere su tutto, anche leggendo. Per cui viene ovvia una considerazione contro l'atteggiamento di questi genitori e di quegli insegnanti che non parlano a sufficienza con i bambini, trattandoli come degli animaletti domestici.

Il Doman ha pure preparato una scatola di materiale per la lettura precoce, che contiene dei cartoncini delle dimensioni di circa cm. 15 x 61 con le lettere di cm. 19 x 9 circa, con 15 mm. circa di intervallo fra le lettere. Le parole iniziali da far apprendere sono le più familiari al piccolo: mamma e papà, quelle che riguardano l'io del bambino (come: mano, dito, naso...), e quelle del mondo immediatamente circostante il piccolo (famiglia, sorella, cane, gatto, sedia...): Con appena qualche esercizio, come se il piccolo giocasse con le lettere, di non oltre mezz'ora al giorno, si avrà un ottimo apprendimento per la lettura. Inoltre è da non dimenticare che non bisogna né annoiare il bambino, né spingerlo quando non vuole, bensì aiutarlo ad interessarsi al gioco delle lettere.

F. Gauquelin riferisce (1977) di una sua esperienza personale, che citiamo come ulteriore esempio. La Gauquelin non credeva possibile l'insegnamento della lettura a età così precoci quali quelle indicati dal Doman: "sulle prime non ne credetti nemmeno una parola. Tuttavia mio figlio Daniel aveva due anni e non rischiavo nulla a provare il metodo con lui: se non ne voleva sapere non avrei insistito. Ma invece ci prese molto gusto. Come è possibile la lettura per un bambino così piccolo? E' semplice: invece di aspettare che il suo cervello acquista una maturità sufficiente a interessarsi alla strutturazione, lettera per lettera, delle sillabe astratte, secondo la logica adulta, l'insegnamento della lettura può partire dalla parola concreta che interessa il bambino anche piccolissimo. Dai due anni, impara oralmente delle parole, prima lentamente, poi con ritmo che si accelera sempre più: a partire dalla stessa età, può apprendere queste stesse parole anche per iscritto, assolutamente con la stessa facilità. C'è solo una condizione: bisogna presentargliele in una forma più accessibile alle sue capacità percettive ancora incerte, cioè in caratteri molto grandi, a colori vivaci che spicchino bene sullo sfondo. La scoperta di Doman è tutta lì: per cominciare presto ci vogliono delle paroli interessanti, scritte a caratteri di scatola".

Possiamo quindi concludere che il processo di maturazione e di sviluppo delle attitudini all'apprendimento e al progressivo aumento delle capacità intellettive degli individui non possono essere lasciate alla spontaneità del caso, anzi debbono essere coltivate in base alle opportune scelte, sorrette dalla conoscenza scientifica e dall'applicazione delle tecnologie ampiamente elaborate in vari settori dell'intervento inculturativo ed educativo.

La polemica fra genetisti e ambientalisti

Una delle idee più stereotipate, fra quelle che affliggono la gran parte degli insegnanti della scuola dell'obbligo italiana, è costituita dal ritenere le attitudini all'apprendimento dei propri allievi come una specie di elemento dato ed immodificabile dall'esterno per mezzo dell'intervento dell'esperienza degli stessi. E' un pregiudizio di tipo innatistico, che fa attribuire, più di quando non sia dovuto, al patrimonio genetico dei singoli proprietà miracolose di fattore primario nelle funzioni intellettive. Tale pregiudizio ha condotto alcuni autori addirittura a manipolare i dati o a elaborare teorie involutive, più o meno logiche, sulle conoscenze fin qui acquisite sui processi dell'apprendimento e sulla modificabilità dell'intelligenza.

La problematica sull'intelligenza fissa e sullo sviluppo predeterminato

Esiste ormai da parecchi anni una grossa polemica che riguarda l'intelligenza e che ha diviso gli psicologi e i biologi in due grossi rami: genetisti e ambientalisti.

I genetisti sostengono che, l'intelligenza è una capacità già formata e non una pura possibilità, nel senso che essa non è suscettibile di grossi cambiamenti e di eventuali aumenti dovuti all'ambiente, ma che dipende piuttosto da fattori prettamente ereditari e genetici.

Gli ambientalisti sono invece convinti che l'intelligenza sia una capacità che si può apprendere e sulla quale si può intervenire tramite un'educazione e un addestramento adeguato. I genetisti ritengono di avere a loro disposizione molte ricerche sperimentali che difendono e dimostrano le loro asserzioni. Da queste ricerche le migliori valutazioni propongono un rapporto di 4 a 1 per, rispettivamente, l'importanza dei contributi dell'eredità dell'ambiente, in altre parole i fattori genetici, sono responsabili dell'80% circa della variazione globale che riscontriamo nei Q. I. nell'ambito di una popolazione come quella che vive oggi in Inghilterra e negli USA (H. Eysenck, 1977).

Naturalmente questi studi sono stati molto variati, nel senso che essi sono stati condotti sia con individui appartenenti alla stessa famiglia ed educati nello stesso ambiente, sia con individui appartenenti alle stesse famiglie ed allevati separatamente, o con soggetti allevati nei brefotrofi dei quali non si conoscono genitori o parenti, ma dei quali è possibile conoscere e controllare in un certo modo l'ambiente. Molti altri studi sono stati condotti anche con i negri americani per cui è noto come i genetisti, e in particolare Jensen, siano stati ritenuti razzisti per aver considerato i negri inferiori ai bianchi per quanto riguarda il Q.I. Jensen naturalmente ritiene questa accusa falsa e infondata: "Ho sempre sostenuto che bisogna trattare le persone come individui, tenendo conto per ognuno dei suoi particolari meriti e caratteristiche, e sono sempre stato a trattare le persone esclusivamente in base alla loro razza, colore, nazionalità e ambiente sociale". (H. Eysenck op. cit.).

In altre parole egli sostiene che i suoi studi non hanno nessuna intenzione di rilevare le differenze tra le razze, ma solo d'indagare quelle che sono le variazioni genetiche del Q.I. tra individui diversi. A sostegno dei suoi studi ne esistono altri che si sono occupati delle differenze esistenti nel campo intellettivo tra bianchi e negri americani.

Per quando riguarda i loro risultati i genetisti sostengono che nessuna importanza debba essere attribuita a determinati fattori, come per esempio la razza dell'esaminatore che potrebbe influenzare negativamente o positivamente i negri sottoposti ai test oppure la motivazione dei soggetti. Essi ritengono infatti che i negri, come i bianchi siano abbastanza motivati a far bene questi test e che quindi non corrisponde a verità il fatto che essi siano già convinti a priori di non riuscire, oppure che si sentono in una posizione inferiore e poco privilegiata rispetto ai bianchi. Le differenze dipenderebbero dunque in massima parte da fattori propriamente genetici, di carattere innato e individuale.

Per questo motivo i genetisti affermano che bisognerebbe prendere in seria considerazione tali fattori che, studiati in modo adeguato, possono portare a risultati migliori soprattutto nell'ambito didattico-educativo. I genetisti, infatti rifacendosi alla loro teoria, ritengono che non è giusto costringere tutti i bambini in uno schema didattico che non tiene conto delle loro differenze intellettive, nello stesso modo in cui non è giusto dare ai malati la stessa medicina e costringere tutti in un letto di Procuste creato con criteri che non tengono presenti le variazioni genetiche nelle capacità intellettive. Essi ritengono che non è affatto "discriminazione" il volere elaborare programmi didattici e che quindi, ponendo dei grossi ostacoli a questa realizzazione, non si fa altro che impedire agli stessi di ottenere dei miglioramenti nei limiti delle loro possibilità. In difesa di questi programmi essi criticano quelli portati avanti dagli ambientalisti, e li ritengono solo un vero e proprio spreco di grosse somme finanziarie. Essi considerano dei fallimenti parecchie iniziative degli ambientalisti, soprattutto il famoso programma "Head Star" con il quale si cercò di migliorare il Q.I di bambini provenienti da famiglie di scarse condizioni socio-economiche tramite il cosiddetto arricchimento culturale dell'ambiente.

Dal canto loro gli ambientalisti sono d'accordo che questa iniziativa sia stata effettivamente un fallimento, sia da un punto di vista teorico che pratico, dal momento che non vennero presi in considerazione numerosi fattori che sono invece alla base di nuovi programmi rivelatesi abbastanza efficaci per l'addestramento delle capacità intellettive dei bambini e degli adulti (cfr. paragrafo successivo). Gli ambientalisti confidano molto in questi programmi integrativi perché sono convinti che l'intelligenza come tutte le altre capacità umane può essere insegnata ed esercitata tramite metodi appropriati. L'intelligenza dunque non è determinata geneticamente, ma è qualcosa che si pone in stretta relazione con l'ambiente in cui viviamo.

Tra i numerosi esperimenti per l'addestramento dell'intelligenza possiamo ricordare il programma di R: Klauss e S: Grav. noto soprattutto come "Early Training Project", programma cioè di addestramento precoce. Entrambi questi psicologi partirono dalla considerazione che molti bambini provenienti dai quartieri più poveri si trovano molto svantaggiati nelle scuole elementari. Infatti l'ambiente in cui questi bambini vivono non è affatto stimolante e contribuisce scarsamente alla loro formazione intellettuale. Essi notarono anche che questi bambini hanno un linguaggio molto ritardato dovuto al ridotto scambio verbale che si verifica nel loro ambiente. Le madri soprattutto comunicano con i loro figli tramite un "codice limitato" ed i bambini sono costretti ad afferrare da una espressione del viso, da un'intonazione particolare della voce e da vari gesti di significato globale della situazione, di una frase. Naturalmente una comunicazione siffatta non è molto efficace e non aiuta il bambino a costruire passo per passo il proprio linguaggio. L'"Early Training Project" si propone dunque di migliorare questo stato di cose usando criteri e procedimenti opposti. Hanno preso parte a questa ricerca 19 bambini negri dell'età di tre anni provenienti precisamente da Nashville e dintorni. Lo scopo è quello di addestrare sin da un'età precoce le attività intellettive di questi bambini e vedere i loro risultati e il loro rendimento nella scuola elementare. I soggetti sono stati sottoposti a corsi estivi di dieci settimane per tre estati consecutive. Sono stati inoltre impiegati molti insegnanti qualificati in modo che tutti i bambini fossero seguiti meglio e con più attenzione. Ogni 5 bambini avevano infatti a loro disposizione un solo insegnante. Si è cercato innanzitutto di addestrare i bambini ad una adeguata formazione dei concetti insegnando loro soprattutto la classificazione, generalizzazione e riclassificazione percettiva, l'abilità numerica e di linguaggio. Lo stesso materiale a disposizione, quello tipico di qualsiasi scuola materna, è stato usato con lo scopo specifico di facilitare l'incremento delle facoltà intellettive dei bambini. Si è cercato, per esempio, d'insegnare al bambino a chiedere l'uso di un giocattolo, oppure si davano dei cubi ai bambini per insegnar loro il nome, il concetto di posizione, il numero.

Si è anche cercato di sviluppare le attitudini più utili per l'apprendimento scolastico, come per esempio la perseveranza, la motivazione al successo, l'interesse per il materiale scolastico. In base a questo addestramento tutti i bambini hanno ottenuto dei risultati significativi ed il Q.I. è aumentato sensibilmente rispetto ad altri bambini delle loro stesse condizioni socio-economiche che non avevano preso parte all'esperimento. I risultati più soddisfacenti si sono avuti quando questi stessi soggetti hanno iniziato a frequentare le scuole elementari. Gli altri programmi di addestramento che hanno immediatamente seguito l'"Early Training Project" hanno anche essi ottenuto dei grossi risultati, come per esempio quelli ideati da M. Blank e F. Solomom, C. Engelmann. Questi programmi però, contrariamente al primo, hanno esteso l'addestramento non solo all'estate, ma a tutto l'anno scolastico ed inoltre hanno cercato di indirizzare maggiore attenzione sulle materie scolastiche come contesto per poter ingenerare le capacità di pensiero. Il programma di Blank e Solomon prevede persino un insegnamento individuale, nel senso cioè che ogni bambino può avere a sua disposizione un solo insegnante. Questi studiosi hanno addestrato i bambini a pensare adeguatamente il linguaggio. Durante le lezioni si è cercato soprattutto di tenerli sempre attivi facendo loro domande e nello stesso tempo abituandoli a costruire le risposte. Bisogna infatti cercare di evitare che i bambini indovinino le risposte. I bambini svantaggiati hanno sempre la tendenza a comportarsi in questo modo, che impedisce loro di pensare correttamente prima di dare una risposta. La giusta risposta deve essere invece preceduta da un attento schema di pensiero analitico. Anche questi programmi, come il primo, hanno permesso ai bambini di migliorare sensibilmente il proprio Q.I.

Genetisti, ambientalisti e polemica sul Q.I

Più avanti passeremo a considerare i progetti per migliorare il Q.I. La controversia sull'eredità se Q.I. si impose al pubblico nel 1969 quando A. Jensen pubblicò un lungo articolo sulla Harvard Educational Review: In tale articolo Jensen giungeva a tre conclusioni principali:

a) il 70-80 % delle variazioni del Q.I. tra i gruppi si spiega con un tipo di varianza genotipica (ereditata);

b) la differenza media del Q.I. trovata tra bianchi e neri si può attribuire in gran parte al genotipo;

c) i programmi di recupero non avevano cambiato in modo significativo il Q.I. e le prestazioni di rendimento.

Grande scalpore e gran parte delle critiche contro Jensen riguardavano la sua seconda conclusione, mentre l'affermazione più importante (la prima) ha ricevuto meno attenzione. Riguardo alla terza conclusione abbiamo già detto qualcosa e vi torneremo sopra più oltre. I dati di base usati da Jensen per stabilire la proporzione di stabilità nel Q.I. che si può spiegare con la varianza genotipica si riferiscono a due filoni di ricerche:

a) la correlazione dei punteggi al Q.I. tra gemelli monozigoti allevati in ambienti diversi (0,75);

b) la correlazione tra genitori adottivi e bambini (intorno allo 0.23).

Innanzi tutto bisogna rilevare che certamente il metodo delle considerazioni non può non mettere in evidenza le somiglianze tra gemelli che esistono almeno per il fattore (A) dell'intelligenza e idem fra genitori e figli biologici. Però sono stati commessi errori metodologici nella misura in cui altri fattori rilevanti che variano col Q.I. e sono condivisi dai gemelli separati, saranno riflessi nella correlazione originaria tra il Q.I. di gemelli monozigoti separati. Questi fattori, una volta controllati, ridurrebbero la quantità di variabilità del Q.I. che si può attribuire il genotipo.

1. Fattore dato dalla "Somiglianza dell'ambiente prenatale": Jensen dice che le differenze nell'ambiente prenatale producono gran parte della differenza nei valori medi dei Q.I. di gemelli monozigoti, sia che vengano allevati separatamente o insieme.

Tuttavia bisogna tenere presente che i gemelli non esperimentano o fanno esperienze solamente differenti nell'ambiente prenatale, ma anche esperienze simili che Jensen non tiene in dovuto conto. Per esempio nell'ambiente prenatale i gemelli possono anche non consumare la stessa quantità di nutrimento, ma sono esposti a una composizione simile di sostanze nutritive e di molecole psicochimiche uguali. Già questi fatti renderebbero conto della correlazione rilevata nei fenotipi e pari a 0.75. Quindi la quantità di variazione attribuita al genotipo viene a ridursi.

2. Fattore dell'età dei gemelli al momento della separazione. L'età alla quale i gemelli monozigotici studiati venivano separati è specificata solo per uno dei 4 studi usati da Jensen.

In questo esempio, che Jensen considera il migliore, a questo proposito, la separazione dei gemelli avveniva alla nascita o entro i primi 6 mesi. Questa è una delle tre ricerche in cui Jensen menziona un tipo di separazione precoce. Degli altri due studi, in uno si legge che l'età media al momento della separazione era di 13 mesi e sei giorni, la mediana di 12 mesi e 5 giorni. Se questa età mediana della separazione è rappresentativa anche dalla terza ricerca (separazione precoce), e se il quarto esempio si basava sulla separazione ad una età più avanzata, (la fonte non viene specificata da Jensen), allora possiamo dire che l'età dei gemelli al momento della separazione può essere stato un fattore di confusione per i risultati di Jensen:

3. Fattore dell'ambiente adottivo dei gemelli monozigotici. Se si usa lo status socio-economico come indice dell'ambiente, ci sono ben poche prove che questo fattore possa essere una fonte di confusione. In uno degli studi usati da Jensen c'è una correlazione leggermente negativa tra i livelli socio-economici e l'ambiente adottivo dei gemelli. Sebbene manchino i dati per le altre tre ricerche, la possibilità che simili ambienti socio-economici abbiano confuso la relazione appare irrilevante e improbabile.

La rappresentatività del campione.

La misura in cui si può generalizzare un dato statistico viene limitata alla popolazione di cui questo dato è rappresentativo.

Il metodo che in genere assicura la "rappresentatività" richiede una selezione randomizzata di soggetti della popolazione all'interno della quale si devono generalizzare i dati, e in questo caso, una assegnazione randomizzata alle varie condizioni ambientali che si trovano nella stessa popolazione.

Jensen intese generalizzare i suoi dati alla popolazione bianca degli USA; tuttavia si deve notare che la ricerca su cui si appoggia l'analisi di Jensen è costituita da un campione non randomizzato e quindi non rappresentativo. Anche l'assegnazione dei gemelli separati dalle famiglie biologiche non è negli studi sviluppati da Jensen sufficientemente controllata. In particolare si può rilevare che una serie di fattori dell'ambiente adottivo sono sfuggiti ad un adeguato controllo: lo status socio-economico, le dimensioni delle famiglie, l'ordine di nascita dei bambini nelle famiglie e la stabilità emotiva delle stesse, tutti i fattori che incidono sul Q.I.

Quindi si può concludere che non è stato dimostrato che vi siano prove sperimentali che l'80% dei fattori che costituiscono i Q.I. siano attribuibili al genotipo. Da questo si deduce che le conclusioni di Jensen non sono accettabili. Ad ogni modo nelle pagine che seguono passiamo in rassegna le principali ricerche svolte su tale argomento.

1. E. Elderton (1922-23) riferisce che Karl Pearson ha trovato una correlazione di 0.54 alla scala di intelligenza dello Stendford Binet fra 216 paia di fratelli che erano stati separati dai loro genitori in età precoce ed allevati in un Orfanotrofio della California. Sia Pearson che Elderton supposero che tale correlazione, che risulta essere molto simile a quella usualmente trovata fra fratelli cresciuti presso le rispettive famiglie biologiche (la quale è circa di 0.52), potesse costituire una buona dimostrazione a favore della teoria o meglio dell'ipotesi genetista dello sviluppo cognitivo. In realtà il confronto delle due correlazioni (0.54 fra i fratelli cresciuti lontano dai genitori biologici e 0.52 fra quelli cresciuti presso le loro famiglie di origine) non ci dice proprio niente sulle influenze ambientali che hanno concorso allo sviluppo intellettivo dei bambini del primo e del secondo gruppo, ma solo che la varianza fra coppie di fratelli può essere di ampiezza simile anche per soggetti che crescano in ambienti diversi, che però non sappiamo quanto diversi fra loro, né in quali caratteristiche si differenzino rispettivamente. Per cui la conclusione di Pearson e Elderton è del tutto gratuita, nella misura in cui va molto oltre il reale ambito fenomenico che i loro dati hanno descritto e analizzato.

2. S.V.S. Theis (1924) ha pubblicato i primi dati riferendosi alle abilità mentali di bambini adottati, correlate ai livelli socioeconomici e culturali dei loro genitori adottivi. L'autrice giunse alla conclusione che "i risultati sulle capacità sembrano in qualche modo favorire di più l'aspetto ereditario che quello ambientale", però senza poter distinguere i fattori ereditari da quelli dell'ambiente neonatale, precedente alla separazione dei bambini dai loro genitori biologici.

3. F.N.Freeman, K. J. Holziner e B. Mitchell (1928) presentato dai risultati Q.I. misurato con la scala Stanford-Binet del 1916, di 74 bambini che furono sottoposti al test a 8 anni di età e di nuovo a 12 anni. Gli autori trovarono un incremento medio di 2.5 punti (da 91.2 a 93.7) in quei bambini adottati da famiglie socioculturalmente superiori a quelle di origine. Musinger trova da ridire, perdendosi in una serie di cavillosità metodologiche (più da avvocato che da scienziato), dimentica il fatto lampante (anche galileiamente) che i bambini cresciuti in un ambiente più favorevole, nonostante la loro provenienza, sono migliorati nel Q.I. rispetto a quelli che non hanno potuto usufruire di tale vantaggio. E' poiché il Q.I. non misura né i fattori genetici soli, né l'influenza ambientale, bensì le possibilità o le opportunità che gli uni offrono all'altra di esprimersi funzionalmente, risulta evidente, che ogni oltre ragionevole dubbio metodologico, che in questo studio i 2 punti e mezzo (per quanto poco siano), sono attribuibili in toto alle condizioni socioculturali migliori e non al patrimonio genetico.

Infatti se il Q.I. fosse una espressione diretta del patrimonio genetico degli individui, in questo caso non avremmo avuto modificazioni di sorte, così come non si danno modificazioni del colore degli occhi se si cambia condizione socio-economica.

4. B. Burks (1939) fu la prima sperimentatrice che ha analizzato e confrontato le correlazioni di Q.I. in un grosso campione costituito da un gruppo formato dai genitori biologici e i loro figli e da un altro gruppo formato invece da genitori adottivi e i relativi bambini adottati. L'autrice ha seguito un disegno sperimentale così concepito: stimare come effetto dei fattori ambientali sull'intelligenza il rapporto tra genitori adottivi e bambini adottati; e come effetto congiunto dell'eredità e dell'ambiente il rapporto tra genitori biologici e i loro figli. Tale campione era composto da 214 bambini bianchi adottati ad un'età media di tre mesi e testati dai 5 ai 14 anni e da 105 bambini che vivevano nelle loro famiglie biologiche, omologabili ai primi per l'età media, la distribuzione del sesso, la mancata frequenza di asili nido e scuole materne, la residenza, la occupazione del padre e la razza. Sia i genitori che ai bambini di entrambi i gruppi fu somministrato il test Stanford-Binet nella forma del 1916.

Il principale risultato di questa ricerca è costituito da una correlazione di 0.20 per l'età mentale fra i genitori adottivi e i bambini da loro adottati; e di una correlazione di 0.52 per l'età mentale fra i genitori biologici e i loro figli. Però non si dice se vi furono incrementi differenziati negli ambienti in cui sono cresciuti i bambini. La Burks stessa, in mancanza di dati più solidi su progressi e regressi nel Q.I., se la cava dicendo che le sue conclusioni contrarie a quelle dello studio di Freeman, Holzinger e Mitchell sarebbero da attribuire ad una selezione nella scelta dei bambini adottati avvenuta per il campione dei tre autori citati.

5. D. B. Lithauer e O. Klinberg (1933) misurarono con la Stanford-Binet il Q.I. di 120 bambini di età compresa fra i 3 e i 13 anni, istituzionalizzati in un orfanotrofio di New York, quindi rimisurarono il Q.I. degli stessi bambini un anno e mezzo più tardi, considerando la differenza che risultò fra quelli che furono adottati e quelli che rimasero nell'istituto. La media iniziale al Q.I. dei 120 bambini era di 82.29 e la media del gruppo, dopo che avvennero le adozioni, risultò di 88.25. Gli autori conclusero che questo guadagno medio di 5.96 punti al Q.I. dimostrava che un miglioramento dell'ambiente può aumentare in modo significativo la misura del Q.I. allo Stanford-Binet.

6. A. M. Leahy (1935) prese un campione di 194 bambini che avevano le seguenti caratteristiche: a) erano stati adottati prima dei sei mesi di età; b) di origine bianca non ebrei e nord-europea; c) avevano tra i 5 a i 14 anni al tempo del test; d) erano stati allevati in comunità di mille o più persone; e) erano stato legalmente adottati da coppie sposate; f) erano stati adottati da genitori bianchi non ebrei e di estrazione nord europea.

Leahy inoltre formò un gruppo di controllo di 194 bambini che vivevano con i loro genitori naturali e che erano omologabili con il campione sperimentale per quando riguardava: a) il sesso; b) l'età; c) l'occupazione del padre; d) l'istruzione del padre; e) l'istruzione della madre; f) la razza la religione e la zona di provenienza dei genitori; g) la dimensione della comunità di appartenenza. La Leahy raccolse insieme ai suoi collaboratori le storie familiari dei genitori rilevandone gli aspetti socioculturali; somministrò, inoltre, lo Stanford-Binet a tutti i bambini raccogliendo così i loro Q.I.; e relativo Otis, unito al sub test del Vocabolario dello Stanford- Binet, ai genitori.

I principali risultati della ricerca di Leahy furono che il punteggio ottenuto ai reattivi dai genitori adottivi si correlava con i punteggi ottenuti dai bambini adottati nella misura dello 0.18 mentre i punteggi ottenuti dai genitori naturali e dai loro bambini avevano una correlazione dello 0.60. La Leahy trovò inoltre una correlazione dello 0.24 al test del Vocabolario dello Stanford-Binet tra genitori adottivi e bambini adottati contro una correlazione dello 0.56 allo stesso reattivo tra i punteggi di genitori e bambini del gruppo di controllo. Inoltre il livello di istruzione dei genitori adottivi prevedeva una correlazione dello 0.20 con i Q.I. dei bambini adottati, mentre la stessa correlazione del gruppo di controllo era dello 0.54. Ribadiamo che tali risultati dimostrano semplicemente l'esistenza del genotipo, che fra figli e genitori biologici può al massimo spartire la sua influenza con l'ambiente al 50% rispetto ad un comportamento come quello dell'apprendimento culturale e sociale.

La ricerca della Leahy conferma con qualche margine di variazione i risultati ottenuti da Burks sopra citati. Infatti i risultati di queste due ricerche mostrano le correlazioni tra i punteggi ai reattivi dei genitori naturali e dei loro bambini erano dello 0.52 per B. Burks e dello 0.60 per A. M. Leahy; mentre le stesse condizioni tra i bambini adottati e i genitori adottivi erano per B. Burks dello 0.20 e per A. M. Leahy dello 0.18.

7. La ricerca successiva sullo sviluppo del Q.I. di bambini adottati è stata pubblicata da E. L. Schott (1937) e riguardava i possibili effetti dell'adozione sul Q.I. di un gruppo di bambini. Schott usò la scala dello Stanford-Binet per misurare l'intelligenza di 100 bambini e di 100 bambine la cui età andava da 18 mesi a 17 anni con l'età media di 5,6. Questi soggetti erano sotto la tutela del Tribunale dei minorenni in quanto o abbandonati o maltrattati dai loro genitori naturali.

I risultati di Schott dimostravano che vi è un incremento generale e globale nel Q.I. dei bambini che furono sistemati presso famiglie adottive di condizioni superiori a quelle di provenienza. L'ambiente adottivo, favorendo i bambini sia a livello intellettivo che a livello emozionale, produceva la possibilità di sfruttare parte del bambino tutte le sue capacità a pieno ritmo, anche se il solito 50% circa di somiglianza (genetica) coi i propri genitori biologici permaneva.

8. D. Snygg (1938) analizzò un gruppo di 312 bambini di un orfanotrofio canadese di Toronto, i quali venivano poi man mano adottati, alcuni sotto l'anno di età altri a 2 o a 3 anni. I dati sul Q.I. mostravano che non vi erano grosse correlazioni (0.13) fra i bambini e le loro madri biologiche, diversamente da ciò che trovarono la Leahy e la Burks che ebbero rispettivamente uno 0.60 e uno 0.52 fra bambini e rispettive madri biologiche. Tali risultati ci inducono a dubitare del metodo di correlazioni, e in ogni caso a restare saldi all'evidenza dei fatti che dimostrano che il Q.I. è ampiamente modificabile (anche per ammissione dei genetisti) che sempre viene incrementato laddove c'è un addestramento adeguato.

9. J. Well e G. Arthur nel 1939 pubblicarono uno studio su un gruppo di 100 bambini con genitori deboli mentali (Q.I. medio circa 75) i cui figli vivevano presso di loro e da loro venivano allevati e su di un gruppo di 100 bambini anche essi con genitori deboli mentali (Q.I. medio circa 75); bambini questi ultimi che vivevano ed erano allevati da genitori adottivi. Gli autori misurano i Q.I. dei bambini che vivevano presso i loro genitori biologici ad un'età media di 6 anni e 7 mesi e li rimisurarono all'età di 12 anni. Quindi misurarono anche i Q.I. dei bambini adottati che venivano allevati lontano dai loro genitori d'origine, deboli mentali, all'età di 5 anni e 6 mesi mediamente e li rimisurarono all'età di 10 anni.

Anche per una serie di altri parametri (esclusione di bambini epilettici o anche altre tare specifiche) i due gruppi erano omologabili. Questi autori trovarono un incremento medio di 1.4 punti di Q.I. nei bambini adottati fra il primo e il secondo prelievo: e un documento di 6.6 punti in quelli che vivevano con i loro genitori biologici. Il che dimostrava fra l'altro che l'abilità mentale non solo si può migliorare, ma anche essere peggiorata, come a volte capita nelle nostre scuole.

E certamente se gli autori avessero fatto delle correlazioni, avrebbero trovato maggiore contiguità fra i genitori deboli mentali e i loro figli biologici e molto minore fra i bambini adottati e i genitori d'adozione. Perciò non è il metodo più sicuro per determinare l'apporto genetico, che pure c'è in relazione al fenotipo comportamentale.

10. G. Hildreth (1940) comparò punteggi al Q.I. di due gruppi di bambini che frequentavano la Lincoln School della Columbia University (New York). Il primo comprendeva 54 bambini adottati entrambi i sessi; il secondo gruppo era costituito da 312 bambini che vivevano con i loro genitori biologici. I due gruppi erano omologhi per età, sesso e status socioeconomico dei genitori, i quali per tutti i soggetti erano professionisti, con istruzione universitaria e con alti punteggi al Q.I.

Il Q.I. medio dei 54 bambini adottati era di 103.3; il Q.I. medio dei bambini che vivevano coi i loro genitori era di 120.3. Questi dati dimostrano ancora una volta che l'ambiente è un fattore determinante nella composizione del Q.I. infatti i bambini che sono sempre vissuti sia in ambiente familiare che scolastico ad alto contenuto culturale hanno dimostrato punteggi medi di 120. Quella adottati da genitori pure di ambiente ad alto contenuto culturale hanno raggiunto punteggi fino a 103 di media, superando così non solo il loro proprio svantaggio iniziale ma pure la media che è di 100.

11. G. Speer (1940) ha raccolto i punteggi al Q.I. di 184 bambini abbandonati dai genitori biologici e in seguito adottati a varie e differenti età cronologiche. L'autore trovò che il Q.I. medio dei soggetti del suo campione decresceva insieme al ritardo del momento di adozione; cioè in ragione inversa alla precocità dell'intervento di inculturazione delle famiglie adottive. Infatti il Q.I. medio dei bambini adottati al di sotto dei due anni di età era di 100.3, mentre il Q.I. medio dei bambini adottati oltre i 12 anni di età risultava di 66.9. Il che dimostra l'importanza dell'intervento precoce.

Inoltre Speer trovò per tutti i bambini che furono ritestati dopo l'inserimento nelle famiglie adottive un incremento medio di ben 5.1 punti di Q.I.

12. J.Layman (1942) prelevò il Q.I. da un campione di 150 bambini adottati dai sei ai dieci anni in due sessioni separate. E' da notare che la maggior parte dei genitori biologici di questi bambini erano di basso status socioeconomico e il Tribunale Minorile era stato costretto dalla situazione ad intervenire sottraendo i piccoli alla insufficiente tutela e alle lacunose cure dei familiari biologici. L'autore trovò un incremento di Q.I. nei soggetti dopo l'adozione da 97.1 (primo prelievo) a 99.9 (secondo prelievo).

13. H.Skeels e M. Skodak dal 1936 al 1949 eseguirono una serie di studi e misurazioni riguardanti il Q.I. di bambini adottivi e giunsero alla conclusione che gli adottati da famiglie di buon livello socioeconomico e culturale che fornivano anche la possibilità di frequentare una buona scuola, e che rispetto alle famiglie biologiche costituivano un netto progresso per l'atmosfera culturale in cui i piccoli crescevano, raggiunsero una media di 107 punti al Q.I., nettamente superiore alle medie dei bambini che vivevano e vivono nelle condizioni delle famiglie di origine del campione.

La conclusione fondamentale cui la Skodak (1939) perviene è la seguente: "Questo studio indica e dimostra che è l'atmosfera culturale (background) della casa che alleva i bambini piuttosto che la famiglia originaria e biologica a delimitare il loro sviluppo mentale. Come necessario corollario ne deriva che la correlazione piuttosto alta riportata fra l'intelligenza dei genitori e dei loro figli biologici più vecchi è probabilmente solo il risultato dell'impatto dei bambini con l'ambiente determinato e governato dagli stessi genitori".

Concludiamo questa scorsa storica dei lavori sul Q.I. sottolineando un dato che ci sembra fondamentale, al di là di ogni cavillo tecnico, e che è costituito da un sicuro incremento del Q.I. (quantitativamente più o meno rilevante secondo i casi) laddove vi è una maggior e migliore inculturazione. Per cui ci sembra insostenibile attribuire al genotipo la determinazione di quel tanto di capacità che servono all'apprendimento scolastico.

Nell'ambito delle richieste di inculturazione scolastica la posizione dei genetisti rischia solo di scoraggiare gli insegnanti a perseverare con insistenza, pazienza e con tecniche semplici per raggiungere il fine che è proprio della scuola di massa e dell'obbligo: far apprendere, cioè, ciò che è alla reale portata di tutti e che costituisce la base dell'istruzione. Le scuole superiori (media superiore e Università) selezioneranno poi i meno dotati in tutte o in alcune discipline: in tal modo, giocando in ogni settore dell'istruzione il proprio ruolo, si contribuirà sia a livello pratico che a livello teorico a chiarire meglio il rapporto tra genotipo e ambiente nelle manifestazioni comportamentali, che costituisce ancor oggi un problema non completamente chiarito a livello scientifico. Ci preme però sottolineare che tale problema posto come viene oggi posto nell'ambito della ricerca, può creare degli equivoci nei 'non addetti ai lavori' e anche negli addetti, innanzittutto perché quando si tratta di fenotipo comportamentale si includono sullo stesso piano tanti o tutti i tipi di comportamento, dall'apprendimento comunemente inteso all'apprendimento per imprinting, dall'apprendimento negli animali inferiori all'apprendimento nell'uomo civilizzato, dall'apprendimento studiato in laboratorio a quello osservato in condizioni non strettamente controllate e controllabili, ecc... e facendo erroneamente di tutto questo una serie di fenomeni omogenea. Inoltre a volte capita di applicare elaborati procedimenti metodologici e statistici, perdendo di vista il riscontro empirico che si impone coi fatti.

Infine si sono verificati degli errori logici di interpretazione dei dati, trasponendoli semplicemente da un livello di discorso ad una altro del tutto estraneo. Per esempio il fatto che molte ricerche abbiano trovato un alto coefficiente di correlazione fra gemelli monozigotici nei punteggi al Q.I., meno alto fra gemelli diziogotici e ancora più basso fra fratelli non gemelli o fra non consanguinei; oppure alto fra genitori e figli e basso fra genitori adottivi e figli adottati sembra del tutto scontato e addirittura banale.

Però questo non giustifica affatto la conclusione di alcuni autori (i genetisti) che il genotipo determini le attitudini ad apprendere più di quanto non lo faccia l'ambiente. Infatti l'attitudine (cfr. cap. 5) è nella pratica dell'apprendimento una variabile fortemente condizionata dal fattore tempo (fra l'altro), dal fattore numerico di prove e dal fattore qualità dell'insegnamento. Per cui in realtà non è necessario essere nati geni o comunque avere un'ascendenza di parenti intelligenti (come i genetisti indurrebbero a concludere), per apprendere le nozioni elementari di cultura generale che vengono impartite e richieste nella scuola dell'obbligo.

Così come non è necessario essere di razza bianca per imparare l'inglese o qualsiasi altra lingua europea. Questo è un fatto che tutti possono constatare. Allo stesso modo, vi sarà necessariamente un altro coefficiente di correlazione fra i Q.I. di genitori deboli mentali e i loro figli che vivono con loro e che usufruiscono di una comunicazione scarsa sia qualitativamente che quantitativamente.

Però questo andamento del fenomeno cambia se i figli dei deboli mentali o comunque i bambini in qualche modo svantaggiati vengono adottati precocemente e allevati in famiglie e in scuole ad altro contenuto culturale sia qualitativo che quantitativo.

D'altro canto fa parte dell'esperienza quotidiana dell'insegnante il rilevare che il bambino, che viene seguito, curato e guidato sul percorso dell'apprendimento, guadagna nel rendimento e matura progressivamente anche quando il livello di partenza è lacunoso. E' bene quindi conoscere ciò che si agita a livello di ricerca di base, senza però perdersi in polemiche astratte dalla realtà concreta di ogni giorno.

Sia dalla tabella che da questo grafico possiamo vedere che :

1. Il genotipo è un fattore che non si può ignorare (soprattutto per il fenotipo somatico, ma anche, in misura meno rilevante per quello comportamentale).

2. L'ambiente, come il genotipo, gioca un ruolo altrettanto importante nel determinare l'intelligenza (determinata con una delle sue misure: il Q.I.).

3. L'apprendimento e le cognizioni scolastiche sono svincolate notevolmente dall'andamento dei due fattori precedenti (che nel grafico sono visualizzati attraverso misure del peso corporeo e del Q.I.) poiché dipendono più direttamente dalla qualità e quantità di istruzione impartita.

Classi sociali e intelligenza

E' ormai un fatto ampiamente discusso ed accettato in psicologia che la classe sociale e il livello socioeconomico di appartenenza di un individuo influisca sul suo quoziente intellettivo e più in generale sulla sua produzione intellettuale. I diversi aspetti socioeconomici dell'ambiente, la professionalità con la consapevolezza di rivestire un determinato ruolo sociale, le aspirazioni e le regole di comportamento della classe sociale a cui si appartiene, contribuiscono tutti a sviluppare negli adulti aspettative, atteggiamenti educativi, sistemi di rinforzi con uso di premi e punizioni, nei confronti dei propri figli, e, nello stesso tempo, costituiscono un potente sistema di riferimento che satellizza nella sua orbita i comportamenti, le motivazioni, gli scopi dei bambini che in tale ambiente si sviluppano e imparano ad apprendere.

Già nel 1937 Terman e Merrill condussero una ricerca sui rapporti fra i punteggi ottenuti dai bambini da due e cinque anni e mezzo e di ragazzi da quindici diciotto anni e mezzo alla Revised Intelligence Scale di Stanford-Binet e la professione dei genitori. Venne rilevata dagli autori una relazione sistematica tra il livello di intelligenza dei figli e il livello occupazionale dei genitori: nel confronto delle medie i figli dei manovali avevano, ad esempio un punteggio al Q.I. mediamente inferiore di venti punti a quello dei coetanei figli dei professionisti.

La conclusione che si dovrebbe ricavare, al di là di possibili tentazioni di interpretazione classista, è che diversi livelli di potenziale genetico, decodificati da ambienti intellettualmente stimolanti o depressi, danno come risultato modelli di sviluppo intellettivo notevolmente divergenti. Bisogna inoltre tenere presente che la ricerca si basa su punteggi medi, e che la gamma di abilità è talmente vasta in tutti i gruppi che il giudizio aprioristico sul singolo individuo è insostenibile. Così come in famiglie di professionisti nascono anche ritardati, è chiaro che in famiglie di manovali possono nascere figli che, nonostante il livello socioeconomico di provenienza, raggiungono altissimi punteggi al Q.I.

Altri dati confermano che un ambiente economicamente e socialmente avvantaggiato contribuisce mediamente in misura determinante a un alto sviluppo delle capacità intellettuali e del rendimento scolastico dei giovani che in tale ambiente vengono inculturati e cresciuti. Bond studiò le famiglie degli studenti fra i quali erano stati selezionati nel 1956 i National Merit Scholars e trovò che 45% di loro appartenevano a famiglie di professionisti e di tecnici, le quali costituiscono l'8.6 % della popolazione, mentre soltanto lo 0.2 % proveniva da famiglie di lavoratori manuali, che rappresentano un altro 8.5% della popolazione. Senz'altro i bambini delle famiglie sui gradini più bassi della scala socioeconomica avrebbero migliorato le proprie abilità se fin dalla nascita fossero stati allevati in famiglie più favorite per quanto riguarda il livello socioeconomico: certamente in un ambiente sfavorevole le abilità mentali individuali si possono deteriorare qualora non vengano fornite al bambino le stimolazioni adatte nel momento adatto, cosicché, subendo l'influsso di questo effetto cumulativo, l'individuo diventa sempre meno abile nel funzionare e nel produrre intellettualmente.

A questo proposito, gli studiosi di psicologia sociale che si sono interessati del rendimento e del successo scolastico, quali M. Deutsch e i suoi collaboratori dell'Institute for Developmental Studies alla New York University, hanno cercato di analizzare i fattori ambientali specifici che incidono maggiormente sul livello di rendimento scolastico, e soprattutto i fattori ambientali legati all'inferiorità sociale, di status, di razza, e se la loro azione si accentuasse con l'età, se esercitassero una azione diversa sulle varie funzioni intellettuali (percezione, linguaggio, abilità numerica e verbale, ecc.). Nel tentativo di evidenziare con la loro analisi quelle categorie specifiche dei vari tipi di deprivazione socioculturale che si verificano in ogni strato sociale, ma certamente raggiungono uno stato di condensazione massima nei livelli socioeconomici inferiori, i ricercatori hanno indicato come particolarmente significativi nello sviluppare l' "indice di deprivazione" sei categorie molto disparate che vanno dall'economia o sperpero alle aspirazioni educative, dal numero dei figli in una famiglia alla conversazione durante i pasti, e dalle esperienze e stimolazioni culturali alla frequenza della Scuola Materna.

Inoltre gli stessi autori hanno posto l'accento sul particolare "effetto di deficit cumulativo", di cui si è parlato sopra, che pare essere particolarmente rilevante per quanto riguarda le capacità verbali dei bambini: "Si ha così il senso di una progressione di sviluppo. Un bambino nasce in una famiglia con uno sfondo sociale particolare. Ha il genere di esperienze che gli permette di sviluppare certe abilità cognitive e verbali e queste a loro volta contribuiscono agli apprendimenti seguenti della scuola" (M. Deutsch, 1976).

Una rassegna recente che riguardava i problemi intellettivi (logici) del bambino che iniziava a leggere arriva alla conclusione che l'astrattezza dell'intero processo poteva portare ad una difficoltà fondamentale nell'apprendimento della lettura. Sembra che il bambino abbia una particolare difficoltà nell'analisi dettagliata di un tutto in parti. Ad esempio, per quanto riguarda il concetto di linguaggio dei bambini; è stata studiata in bambini in età prescolare e di prima elementare la loro comprensione di singole parole. Sono stati presentati ai soggetti otto tipi di stimoli uditivi, dopo di che ogni soggetto doveva rispondere di si se pensava che lo stimolo costituisse una parola singola, in caso contrario dovevano rispondere negativamente. Tutti i bambini, ad ogni livello di età, confondevano fenomeni isolati e sillabe con le parole.

Tutti i bambini erano anche capaci di distinguere tra suoni non verbali non identificabili e parole. Tuttavia si è osservato anche che mentre i bambini fino a 6,5 anni di età tendevano a confondere suoni non verbali identificabili, e frasi con le parole, tale confusione non si verificava in bambini di età più avanzata.

I risultati della ricerca mostrano che:

1. i bambini di LSE alto avevano dei punteggi significativamente superiori ai test dei bambini di LSE medio e basso;

2. dopo metà anno di esperienza di scuola materna (kintergarten) queste differenze tendevano a scomparire quasi completamente.

Questi risultati sottolineano che lo sviluppo dei concetti e del linguaggio nel bambino è strettamente correlato alle sue esperienze di addestramento.

Un rapporto di qualche anno fa sulla scolarizzazione negli USA (1972) conclude che le scuole producono solo piccole differenze nell'aumento della capacità di apprendere dei bambini; mentre la maggior parte delle differenze osservate viene attribuito al background socioeconomico e alle capacità ereditarie. Inoltre l'ambito della varianza nella abilità di apprendere e nel rendimento viene sempre più ridotto man mano che procede la scolarizzazione.

Questa ricerca si basa su un campione di 208 bambini di quarta classe scelti a caso in 20 scuole elementari di Columbus, Ohio. I dati raccolti riguardano i rendimenti dei bambini nei loro curriculum scolastici e notizie sulla loro scuola, sugli insegnanti e sulle famiglie e anche sugli stimoli extra scolastici.

Inoltre Hill, Stafford e Leikowitz ritengono che l'apprendimento di capacità cognitive fuori della scuola sia una delle componenti che determina la capacità dello scolaro. Hill e Stanford trovarono che le madri di status socioeconomico più alto trascorrono più tempo con i loro bambini delle madri di status socioeconomico più basso. Leikowitz trovò che le capacità cognitive dei bambini di età prescolare hanno una relazione positiva significativa con il tempo che le madri trascorrono con i loro bambini. Questi dati suggeriscono che i bambini entrano a scuola già con grandi differenze nei livelli di capacità cognitive in parte anche a causa delle stimolazioni familiari.

I risultati della ricerca provano che le scuole riducono la varianza delle capacità cognitive di apprendimento fra i bambini. Mentre le differenze nei livelli di capacità, e abilità persistono, i bambini più svantaggiati apprendono le capacità cognitive almeno con la stessa rapidità dei bambini inizialmente più avvantaggiati durante la terza e la quarta classe. Questi risultati confermano l'ipotesi che la scuola tende a standardizzare il livello di apprendimento dei bambini dal momento che usa dei programmi standard che a loro volta uniformano i gradini successivi dei processi di apprendimento.

Ciò nonostante l'ambiente culturale extra scolastico e le stimolazioni più o meno ricche che il bambino riceve in famiglia continuano a sovrapporsi agli imputs scolastici e a maggiorare o dominare le capacità del bambino stesso.

Naturalmente questi risultati che provengono da un piccolo campione (208 soggetti) di un unico sistema scolastico non contraddicono, per esempio, le possibilità dei progetti e dei programmi speciali che hanno dimostrato di dare ottimi risultati per il recupero dello svantaggio. Anche queste considerazioni e le relative ricerche empiriche confermano la possibilità di intervenire sull'intelligenza, che quindi si manifesta come una funzione dell'organismo estremamente plastica, cioè modificabile in ogni senso.

Uno dei compiti fondamentali dell'insegnante, soprattutto ai primi livelli di scolarizzazione del bambino, è quello di saper riconoscere i piccoli portatori di svantaggio culturale, cioè quegli allievi che sono stati cresciuti nei loro primi 5 o 6 anni di vita in ambiente con alto indice di deprivazione socioculturale, e di offrire loro tutte le stimolazioni necessarie a evitare la cumulazione del deficit.

I dati sino ad ora esposti sono stati confermati anche dalle ricerche compiute in Italia, e precisamente da una équipe di studiosi che hanno analizzato un vasto campione di bambini milanesi (cfr. O. Andreani, 1974) e le loro abilità mentali in relazione allo status socioeconomico delle loro famiglie di appartenenza.

Sono stati tenuti presenti dagli autori degli indici caratterizzanti le famiglie dei bambini testati quali: le dimensioni, il livello socioeconomico, la professione, l'età e l'istruzione dei genitori, ma anche indici che hanno risvolti psicologici immediati ed evidenti quali la stabilità della famiglia, misurata dal tempo di residenza a Milano, dalla provenienza, dalle migrazioni, e ancora la possibilità della famiglia di dare un aiuto nello studio, attraverso il sostegno dei familiari o di lezioni private, la possibilità o il desiderio di far proseguire gli studi ai figli, l'atteggiamento verso l'istituzione scolastica.

Per quanto riguarda invece la misura delle abilità mentali dei soggetti, gli autori hanno scelto un vasto campo di abilità da misurare, utilizzando due tests del tipo non verbale, che saggiavano capacità di osservazione, classificazione, formazione dei concetti; due tests di abilità scolastiche di base strumentali per tutti gli apprendimenti culturali successivi (matematica e lettura); tre prove di abilità linguistica e creativa (temi), ecc...

Mettendo in relazione l'indice globale di status, che riunisce gli aspetti economici e culturali della classe di appartenenza, e i risultati dei soggetti ai tests, gli autori hanno rilevato che le differenze più forti si hanno nel test di lettura, soprattutto nella velocità, poi nella comprensione, infine nella parte di conoscenza dei vocaboli; seguono le differenze nei test di matematica, minori nel calcolo e più alte nei problemi.

Un dato di grande interesse sottolineato dagli autori è quello per cui gli insegnanti tendono a sottolineare le differenze relative alle variabili di personalità, e soprattutto quello che riguardano la tenacia, la responsabilità, l'interesse per lo studio, tutte chiaramente legate all'impegno scolastico incoraggiato nelle classi alte.

Nell'insieme i dati di questa ricerca confermano pienamente il fatto che la mancanza di stimoli adatti e di educazione al ragionamento abbiano un effetto negativo progressivo sull'abilità intellettuali. I bambini di livello socioeconomico basso, pur avendo capacità percettive e di osservazione, sono meno stimolati a osservare, meno guidati alla discriminazione dei particolari significativi e delle relazioni; ottengono meno rinforzi dagli adulti per le risposte esatte; quindi la presenza di una stimolazione più scarsa e meno variata e l'assenza di rinforzi contigenti da parte degli adulti non favoriscono lo sviluppo delle capacità di induzione e deduzione dei bambini e non costituiscono un background favorevole all'acquisizione di nuove conoscenze e modelli di inculturazione.

Tra le varie dimensioni ambientali esaminate, l'influenza prevalente è rappresentata dall'istruzione dei genitori, e specialmente della madre, che, soprattutto nei primi anni di vita, è il tramite principale tra il bambino e il suo ambiente circostante.

Infatti le iniziali possibilità che il bambino ha di giocare, di muoversi, di manipolare strumenti e oggetti, di comunicare, di prendere o di subire iniziative, dipendono soprattutto dalla madre, che fa di intermediario affettivo tra le disponibilità materiali determinate dal livello economico e la possibilità di servirsene senza divieti o punizioni; inoltre è la madre che influenza il codice linguistico del bambino, gli offre la possibilità di collegare le sue esperienze con spiegazioni che mettono in luce le relazioni logiche, ricompensa o scoraggia la sua naturale curiosità, insegna i primi valori che sono propri del gruppo socioculturale di provenienza, ponendo così le basi per la motivazione dell'apprendimento.

Una recente ricerca fatta in ambiente Ferrarese su quattro gruppi di madri, rappresentativi di quattro situazioni sociali, economiche e culturali, definite in base alla professione dei mariti (braccianti, coltivatori diretti, operai ed impiegati) è stata svolta nell'intento di sottolineare l'importanza che il modello epistemicoo di conoscenza dell'adulto riveste per la formazione e la psicopedagogia del bambino. Queste madri infatti, provenienti da quattro gruppi socialmente diversi, hanno dei loro figli e delle loro categorie attinenti all'infanzia (gioco, pulizia, punizioni, studio, autonomia, ecc...) idee e concezioni diverse che costituiscono altrettanti parametri educativi applicati ai bambini. Questi parametri educativi informano di sé l'esperienza prescolastica del bambino e costituiscono il fondamento di base sui cui le loro esperienze successive di socializzazione e di apprendimento verranno innestate.

Gli autori di questa ricerca, usando interviste e colloqui non-diretti con il campione di madri suddetto (40 Ss), hanno rilevato che pur essendo comune a tutte e quattro i gruppi di madri l'assumere in senso positivo l'autorità dell'intervento pedagogico parentale, i modelli educativi cui l'azione pedagogica era improntata risentiva di quattro backgrounds socioculturali diversi, che trasmettevano ovviamente ai bambini diverse motivazioni e comportamenti. Ad esempio era del tutto sconosciuta a questo campione la pratica di "free the children" che si può invece notare in gruppi delle categorie professioniste e imprenditoriali urbane, dove l'elevata scolarità dei genitori, l'alto livello socioeconomico e la disponibilità di tempo delle madri consente esperienze educative non ispirate ai modelli correnti, ma all'informazione che sta alla base di una pedagogia antiautoritaria (es. testi di psicoanalisi, resoconti delle esperienze di Summerhill e dei Kinderladen berlinesi, esperimenti di scuole autogestite, ecc).

Nella comune pedagogia di tipo direttivo di queste madri, era tuttavia possibile distinguere diverse qualità di disciplinarismo, da forme di controllo pesante nel caso delle mogli dei contadini, ad aspetti di maggiore permissività nel caso delle donne di famiglia operaia. Ma ancora questo spiega poco a livello delle sequenze di comportamento ritrovate nei bambini, se il taglio dell'analisi non va più a fondo. Allora si vedrà, per esempio, che il modello disciplinare duro, diretto e autoritaristico della pedagogia contadina può non provocare nel bambino i guasti che un modello, apparentemente più liberale, può causare attraverso canali propri. Il modello tipico di una certa pedagogia borghese, di intervento più sottile, didascalico, improntato da attente cure e sacrifici per i figli, dove la punizione fisica è interpretata in termini di intervento razionale, di "ragionamento", è una struttura altrettanto repressiva che l'adulto esercita nei confronti del bambino.

Il concetto di "gioco", come precoce addestramento a leggere, a scrivere e a contare, come tranquillo esercizio a tavolino che libera soprattutto la madre dai comportamenti rumorosi e motoriamente attivi al bambino, il concetto di autonomia e di indipendenza, frainteso spesso favorito dagli adulti solo in quanto deresponsabilizzante nei loro confronti, sono esempi propri di questo modello, che spesso vive il bambino in funzione esclusiva dell'adulto.

Se è vero che ogni classe sociale e ogni gruppo culturale sono portatori di particolari "modelli epistemici" dell'infanzia, che, tradotti in azioni pedagogiche, inevitabilmente improntano di se i comportamenti e le motivazioni e gli stili di apprendimento di bambini, è necessario che l'adulto, pur attraverso i filtri delle sue categorie socioculturali, operai nei confronti del non-adulto, una rivoluzione Copernicana, che gli permetta di partire dalle esigenze del bambino stesso. Solo rinforzando positivamente i suoi comportamenti che tendono all'espressione di sé e rispondono in modo contingente alle sue azioni e ai suoi bisogni, l'adulto, può contribuire a sviluppare nel bambino una personalità equilibrata e critica, in cui siano completamente decodificate e rese manifeste come forze attive, quelle capacità e quelle potenzialità positive che ogni individuo possiede fin dalla nascita. In questa opera di educazione è altrettanto importante dell'operato dei familiari l'azione dell'insegnante, che, come adulto e come portatore anch'egli di un "modello epistemico" dell'infanzia, e soprattutto come tecnico e professionista dell'educazione Copernicana nei confronti del non-adulto ed essere in grado di influire sui genitori stessi, rendendoli partecipi delle conoscenze tecnologiche di base.

I fattori ambientali specifici e il Q.I

Abbiamo quindi visto che le condizioni prodotte da un ambiente socioeconomico depresso incidono sul rendimento intellettivo e sugli standard dell'intelligenza, fino al punto che si può determinare un'equazione fra svantaggio scolastico e svantaggio socioeconomico. Però lo svantaggio scolastico e la scarsa resa intellettiva sono anche determinati da un altro gruppo di fattori specifici, i quali incidono sullo sviluppo delle capacità del bambino in crescita. Per cui si può dire che a pari condizioni di livelli socioeconomici e di capacità "genetiche", possiamo ugualmente avere dei grossi divari intellettivi e di rendimento scolastico.

Infatti il rendimento scolastico e le attitudini e le abilità intellettive possono essere pesantemente condizionate, sia in modo positivo che negativo, da fattori quali il rapporto fra genitori, fra i genitori e il gruppo sociale di appartenenza, i peculiari atteggiamenti e la credenza dei familiari in genere, ecc...

Marjoribanks ha sottoposti ad alcuni tests di abilità mentale 185 bambini canadesi di 11 anni. Contemporaneamente i genitori dei bambini venivani intervistati nel loro ambiente familiare e classificati secondo otto aree concernenti processi ambientali diversa. Tali processi ambientali, mediati dai genitori, erano significativamente correlati all'abilità verbale numerica dei bambini, più di quanto queste ultime abilità non risultassero correlate al livello socioeconomico di appartenenza.

Anche Moore ha condotto con risultati omologabili a quelli appena citati in una ricerca su 76 bambini londinesi. Quando i soggetti avevano due anni e mezzo, sono stati classificati i loro processi familiari-ambientali secondo tre diversi modelli: il Q.I. dei bambini (misurati a tre e sette anni) si dimostrarono correlati in modo significativo con i loro avvenimenti familiari.

Bradley, Caldwell e Elardo si chiedono se le relazioni tra livello socioeconomico, processi ambientali e capacità cognitive siano le stesse per i bianchi e negri statunitensi, da la frequente confusione che in precedenti studi è stata fatta tra livello socioeconomico e appartenenza a una cosiddetta "razza". Sia nei soggetti bianchi che in quelli negri si dimostrarono molto più determinanti riguardo al Q.I. le variabili correlati coi processi familiari e con lo sviluppo ontogenetico precoce del bambino. Le variabili erano ad esempio, le relazioni verbali ed emotive delle madri al bambino., i criteri punitivi, l'organizzazione dell'ambiente del bambino e suoi materiali di gioco, le occasioni di cambiamento e di variazioni nella routine giornaliera. Tale gruppo di variabili risultarono assai più significative nella correlazione col Q.I. dei soggetti che non il gruppo di variabili ascrivibili al livello socioeconomico, ad esempio, il livello di istruzione paterna della famiglia.

Vanno inserite fra le variabili non strettamente dipendenti da fattori socioeconomici, ma piuttosto dai modelli epistemici dei genitori e degli adulti in genere dei confronti dei bambini, alcune caratteristiche specialmente culturali.

Kagan e Zahn (1975) correlarono il basso rendimento scolastico di bambini messicani nelle scuole americane alla variabile classificata dagli psicologi come field dependence, relativa alla sociocultura di provenienza dei soggetti. In precedenza lo scarso rendimento dei soggetti messicani era stato associato al loro status socioeconomico inferiore, al bilinguismo, a un atteggiamento negativo verso l'istituzione scolastica, a un'immagine negativa di sé. Gli autori di questa ricerca indicano invece come variabili più significative il possesso di uno stile cognitivo dipendente-indipendente dal campo. Ramirez e Price-Williams (1974) infatti asseriscono che i bambini messicani sono meno indipendenti dal campo nel loro stile cognitivo rispetto ai bambini americani, in armonia con le caratteristiche della loro sociocultura.

Essi mettono in evidenza un orientamento della sociocultura messicana ad educare i bambini in modo autoritario, con imposizioni di tipo coercitivo e arbitrario che scoraggiano un comportamento indipendente, attivo e di curiosità.

Altri autori sottolineano questo tratto caratteristico delle comunità messicane e soprattutto la rigidità delle madri nell'inibire i comportamenti di indipendenza e attività dei bambini e nel pretendere l'obbedienza (Ramirez, 1967, Minturn e Lambert, 1964).

Secondo le conclusioni di Kagan e Zahn questa categoria culturale è correlata in modo particolarmente significativo sia alle capacità dei soggetti nelle operazioni matematiche e nell'usare concetti quantitativi, che alle loro capacità verbali.

Shampson (1977) ha trovato che i bambini di terza elementare dimostravano che nell'acquisizione dei concetti solo quelli che possedevano un buon grado di indipendenza dal campo, riuscivano a focalizzare appieno la struttura del compito da eseguire e il relativo apprendimento. Mentre contemporaneamente non vi erano differenze significative fra i dipendenti e gli indipendenti dal campo nei processi di memorizzazione e ricordo dell'informazione e in quelli della comprensione del codice (codificazione e ricodificazione).

Il bambino dipendente dal campo si trova in una situazione di blocco delle capacità espressive.

S. Kagan e G.L. Zahan (1975) correlano il basso rendimento e lo svantaggio scolastico alla variabile educazione rigorosa autoritaristica che si esplica attraverso imposizioni di tipo coercitivo e arbitrario, che di fatto scoraggiano un comportamento infantile indipendente ed attivo anche a livello intellettivo.

In particolare R. Elliot (1961) trovò una correlazione positiva più diretta fra la dipendenza dal campo con le strutture cognitive che con altri tratti di personalità in soggetti adolescenti. Tali situazioni pare possono essere attribuite con buona probabilità alle cure parentali, ai rapporti ontogenetici con l'ambiente in cui viene allevato il bambino ed in particolare alla iperprotettività e alla incoerenza degli schemi educativi trasmessi dalla famiglia, i quali inibirebbero la crescita di schemi autonomi e differenziati nel rapporto di scoperta costante dell'ambiente e di acquisizione delle relative stimolazioni.

Tali considerazioni, fra l'altro, ci consentono di rilevare che la attribuzione di dicotomie semplicistiche e meccaniche come particolarmente correlate fra livelli socioeconomici e intellettivi non è sempre del tutto valida, poiché interferiscono attraverso tutti i tipi di LSE dei fattori ambientali specifici che riguardano lo sviluppo ontogenetico dei singoli in relazione al rapporto individuo-genitori. L'ecosistema che influisce sullo sviluppo cognitivo non è determinato solo dal fattore socioeconomico.

Quindi:

1. La condizione di isolamento dei casolari di campagna.

2. Il rapporto educativo e inculturativo in famiglia privo di alta quantità e qualità di verbalizzazione, scarsissimo di spiegazioni e impostato su ordini perentori, si rivela inibitorio delle capacità di intervento intellettivo del bambino sull'ambiente.

3. Tali bambini, nella scuola, esperimentano dei rapporti nuovi e possono esplicitare le loro capacità intellettive di indagine e di intervento sull'ambiente circostante, mentre quelli che partono da condizioni familiari più favorevoli dimostrano una perdita di capacità rispetto alle loro potenzialità iniziali e una livellazione standardizzante.

Alcuni progetti per insegnare l'intelligenza

In questo paragrafo passeremo in rassegna alcune delle esperienze più significative sull'insegnamento dell'intelligenza, allo scopo di avere alcuni dati di riferimento per la nostra conoscenza e ad uso dell'elaborazione di progetti di intervento nel nostro ambito scolastico e sociale.

Un primo studio è stato condotto da Rupert Klaus e Susan Gray che dal 1962 e per alcuni anni hanno sperimentato tecniche di recupero intellettivo con soggetti negri sui tre anni, provenienti da famiglie socioeconomicamente svantaggiate.

Tali soggetti iniziavano l'iter scolastico svantaggiati sul piano intellettivo ed in seguito andavano incontro ad un decremento del Q.I. e ad un parallelo regresso scolastico. L'effetto più importante rilevato dagli autori era costituito dalla relazione esistente tra deficit nell'uso del linguaggio e condizione di svantaggio socioeconomico. La causa di tali deficit era da ricercare nel tipo di comunicazione verbale, scadente sia a livello quantitativo che qualitativo, che era usata, e quindi appresa dai bambini in famiglia. Infatti la madre di tale bambino quando parla usa un codice limitato. Gli autori applicarono un programma di addestramento su diciannove di questi bambini: il corso si articolava in tre estati consecutive, cinque volte la settimana e per quattro ore al giorno. A tal fine vennero impiegati numerosi insegnanti i quali si applicavano in un addestramento intensivo del comportamento linguistico dei bambini, con un rapporto docente-discente di 5 a I.

Il materiale didattico usato era costituito da giocattoli a ruote, cubi, puzzles, colori. Inoltre il programma di corsi estivi venne integrato, durante i mesi invernali, da una visita settimanale domiciliare fatta da un insegnante elementare, che aveva seguito i bambini e che interveniva presso la madre per stimolarla a utilizzare un maggiore livello di comunicazioni verbali, durante le normali attività domestiche.

Alla fine del programma, durato tre anni, i soggetti del gruppo sperimentale (19) mettevano in evidenza un aumento medio del Q.I. di nove punti, rispetto al gruppo di controllo, che non aveva ricevuto l'addestramento. Fra l'altro gli autori giunsero a verificare che, mentre la spinta inerziale del programma non andava perduta, erano necessari interventi ripetuti per bilanciare e neutralizzare i condizionamenti negativi dell'ambiente di tali famiglie a basso livello socioeconomico. Inoltre si riscontrano effetti alone sia nei fratellini dei bambini del gruppo sperimentale, attribuiti al miglioramento della comunicabilità materna, accompagnati da un miglioramento di altri gruppi residenti nel quartiere dove si era concentrato l'esperimento.

Bereiter e Engelmann (1966) attuarono un programma di addestramento prescolare che presenta due caratteri peculiari rispetto al precedente: estensione dell'istruzione all'intero anno scolastico e centraggio dell'utilizzazione delle materie scolastiche che come strumento e mezzo per stimolare le capacità cognitive dei bambini. Tale programma fu condotto alla luce di questi principi: una scuola materna deve realizzare per dei bambini svantaggiati, che non riescono a progredire normalmente, un apprendimento concreto e non solo dedicarsi allo sviluppo delle capacità di apprendere, in quanto gli autori considerano che il deficit del rendimento non dipende da scarse capacità, bensì da vere e proprie lacune di conoscenze. In modo particolare bambini provenienti di famiglie a basso reddito non riescono a sviluppare concetti e abilità che sono i fondamenti del successo scolastico. Nei tests di livello tali lacune si manifestano attraverso bassi punteggi nell'abilità verbale (ampiezza del vocabolario e larghezza delle frasi) e nello sviluppo logico e del ragionamento.

Gli autori manifestano il convincimento che tali soggetti svantaggiati non sono stati carenti di stimolazioni sensoriali (del tipo della deprivazione), bensì culturali in senso lato e informative: che costituiscono poi quell'insieme di esperienze con un preciso valore educativo ed informativo che preparano il terreno ad un ulteriore sviluppo scolastico. Poiché l'ambiente socioeconomicamente depresso è caratterizzato da una comunicazione stereotipata e limitata anche in quantità, la quale impoverisce la duttilità concettuale dei soggetti.

Il programma attuato su un campione di 15 bambini e realizzato con un insegnamento intensivo e tramite tecniche specifiche, sia livello verbale che logico, ha prodotto un miglioramento medio nel Q.I. valutabile in 15 punti. In particolare esso si articolava attraverso le seguenti caratteristiche principali: a) programma concentrato; b) priorità del comportamento linguistico-verbale; c) limitazione dell'attività monipolatoria; d) priorità del momento dell'istruzione rispetto ad altre forme dell'intervento educativo; e) rivalutazione della lingua e dell'aritmetica; f) organizzazione dell'insegnamento secondo uno schema "scolastico"; g) avvicendamento degli insegnanti che fanno lezione.

Gli autori hanno registrato miglioramenti in molte abilità scolasticamente importanti e nei punteggi di tests oggettivi (di lettura e aritmetica), incremento generale dei quozienti intellettivi.

Alcuni autori hanno criticato tale programma, nonostante i suoi indubbi e riconosciuti risultati, soprattutto perché esso si presenta come troppo specialistico e centrato su abilità specifiche, trascurando lo sviluppo dell'unità psicosomatica (o personalità globale), infatti come riconoscono gli autori stessi, il bambino svantaggiato per cause socioeconomiche è costretto a recuperare in un anno il cammino percorso dai coetanei non svantaggiati in più anni.

Ad ogni buon conto, poiché riteniamo importante tale lavoro per la preparazione dei nostri insegnanti, informiamo il lettore che esso è stato tradotto in italiano e pubblicato presso l'Editore Franco Angeli di Milano nel 1977 col titolo "Scuola per l'Infanzia e Svantaggio Culturale".

Riteniamo inoltre opportuno verificare tali programmi con lavori analoghi eseguiti in Italia, aprendo una parentesi sull'impostazione educativa e inculturativa di tipo globale, e citando all'uopo Frabboni (1974), il quale così si esprime: "Già si è accennato in precedenza come la scuola dell'infanzia, non aggredita ancora dalla logica dell'istruzione ufficiale (che tramite le materie scolastiche, frantuma inesorabilmente la cultura infantile) debba gelosamente custodire il proprio fronte di esperienza e di attività su basi di globalità ed unitarietà".

E per ora basti accennare a tale impostazione psicopedagogica che fa fulcro sull'attività ludica del bambino, la quale conduce spontaneamente e col minimo di frustrazioni alla maturazione delle capacità cognitive, dell'equilibrio emotivo e affettivo nel rapporto di collaborazione-competizione del gioco, e allo sviluppo delle conoscenze, anche nozionali, che sono una diretta conseguenza della curiosità in espansione del bambino.

Troviamo inoltre a cavallo fra gli anni 1968 e 1970 un progetto guidato da M.B.Karnes, che ricalcava sostanzialmente quelli già sopra citati, con qualche diversificazione. L'addestramento si articolava in unità di venti minuti di apprendimento e riguardava tre aree cognitive: concetti matematici, linguaggio e prontezza di lettura, studi scientifico-sociali. Il rapporto docente-discente era 5 a I. I soggetti sottoposti a tale training intensivo guadagnarono otto punti di Q.I. al test Stanford-Binet, rispetto a quelli che frequentavano un asilo tradizionale o una scuola Montessori.

La caratteristica peculiare di una ulteriore ricerca di M. Blank e F. Solomon (1968) consisteva nel fatto che i soggetti venivano addestrati individualmente e non a gruppi; l'addestramento si svolgeva quotidianamente e si protraeva per 15 minuti. Gli autori nel loro programma partono dagli stessi presupposti di Bereiter ed Engelmann: la constatazione che bambini svantaggiati evidenziano lacune che coinvolgono la sfera cognitiva, motivazionale e affettiva. I soggetti quindi richiederebbero un addestramento specifico per organizzare il pensiero, "per riflettere sulle situazioni, per capire il significato degli avvenimenti e per strutturare il comportamento così da riuscire a scegliere tra alternative diverse":

Il campione era costituito da bambini di 4 anni che frequentavano una scuola materna tradizionale in una zona socioeconomicamente depressa di New York. L'addestramento individuale avveniva in stanze separate, ove ogni bambino singolarmente restava con l'addestratore.

Vennero divisi i soggetti in tre gruppi: i soggetti del primo venivano addestrati per 15-20 minuti al giorno, per cinque giorni la settimana per molti mesi; i soggetti del secondo gruppo ricevevano lo stesso programma di addestramento, ma solo per 3 giorni la settimana; i soggetti del terzo gruppo costituivano i controlli, che venivano avvicinati dall'insegnante per cinque giorni la settimana, ma senza ricevere alcun addestramento. I risultati dimostrano che il primo gruppo ebbe un aumento del Q.I. di 14.5 punti; il secondo gruppo un aumento di 7 punti; infine il terzo gruppo manifestò un incremento di Q.I. di due punti.

Nel 1973 J.Kagan pubblicò dei risultati di un esperimento, che si diversificava dai precedenti sopracitati perché i soggetti dell'addestramento erano costituiti da bambini molto piccoli: da appena dopo la nascita e attraverso l'età prescolare. Questa ricerca ha verificato che, contrariamente a quanto pensano alcuni psicologi, la maturazione neurologica e la crescita intellettiva non subiscono un arresto permanente se il bambino non beneficia di un'adeguata stimolazione durante il primo anno di vita. L'area dello studio di Kagan riguardava un villaggio di Indiani del Guatemala, i quali allevano i bambini in abitazioni tipo capanna, buie e privandoli per tutto il primo anno di vita del gioco e della presenza degli adulti, eccetto la madre che li nutre, poiché temono il contagio da parte degli adulti, la trasmissione di malattie infettive. Conseguentemente tali bambini all'età di due anni mettono in evidenza un notevole ritardo psicomotorio, il quale però viene recuperato successivamente. Inoltre contemporaneamente Kagan somministrò tests di livello a soggetti dai 5 agli 11 anni della stessa zona, costatando che le attitudini mentali medie di tali soggetti sono uguali a quelle di bambini statunitensi. L'autore fa rilevare che anche bambini delle famiglie di ceto medio dell'Olanda dell'Est vivono in ambienti poveri di stimolazione, con scarsi contatti con l'adulto e senza possibilità ludiche fino al termine del primo anno di vita. All'età di cinque anni anche questi soggetti sono intellettivamente normali.

Una équipe multi disciplinare di ricercatori dell'Università del Wisconsin, diretta da R.Heber (1972), fin dal 1964 fermò l'attenzione sul fatto che sei milioni di statunitensi sono insufficienti mentali, anche se l'80 % circa di tali soggetti non manifestano evidenti patologie del sistema nervoso centrale. Tale riflessione sottolinea il fenomeno che il ritardo funzionale (analfabetismo e basso Q.I. senza sintomi di patologia neurologica) è presente soprattutto in aree economicamente depresse. L'équipe iniziò l'esperimento, procedendo alla misurazione del Q.I. di bambini in età scolastica in un distretto del Milwaukee che aveva il più alto indice di affollamento. Fu isolata, come variabile rilevante il Q.I. materno: il livello dei quattro quinti delle madri coinvolte nella ricerca era inferiore a 80 punti. Mentre il Q.I. del padre dei soggetti dell'indagine non veniva considerato egualmente importante, poiché questo non viveva molto in famiglia. I ricercatori maturarono il convincimento che le madri scarsamente dotate creavano un ambiente poco stimolante e quindi responsabile del basso Q.I. dei bambini.

Nel 1966 fu istituito l'Infant Educational Center per verificare la possibilità di prevenire queste forme di ritardo intellettivo correlati con i quartieri poveri. Il campione fu costituito da 40 madri con Q.I. inferiore a 75. I figli della metà di tali madri furono scelti per un programma sperimentale, gli altri furono utilizzati come gruppo di controllo. Per i primi tre mesi l'insegnante visitava a casa ogni bambino del gruppo sperimentale per parecchie ore al giorno. Dai tre mesi fino all'età di due anni, ogni bambino veniva portato al Centro e stimolato da un adulto con un rapporto I-I. Anche alla madre veniva fornito un'addestramento professionale e un'istruzione nelle abilità di casalinga e di puericultrice.

All'età di due anni il bambino veniva inserito in una classe, diretta da tre insegnanti, con altri cinque coetanei; all'età di quattro anni il numero dei soggetti saliva a otto e all'età di cinque anni a undici unità complessivamente. Il programma veniva svolto per quattro giorni a settimana, seguendo questo schema di operatività: la mattina la comunità scolastica si divideva in tre gruppi, con ciascuna insegnante che si occupava di una diversa attività, con unità d'insegnamento della durata di mezz'ora. I primi venti minuti venivano dedicati all'addestramento e all'informazione strutturata con materiali standard; nei rimanenti dieci minuti ciascun bambino era libero di proseguire l'attività intrapresa dall'insegnante o di continuare, scegliendo materiali istruttivi. Ogni mezz'ora il gruppo scambiava le insegnanti e le attività . Tra la seconda e la terza "lezione" si svolgeva un periodo di gioco libero della durata di mezz'ora. Il pomeriggio i bambini seguivano due corsi uno di lingua che riguardava la comunicazione e la soluzione dei problemi, l'altro concerneva argomenti generali: dall'arte alla musica. Il terzo insegnante curava individualmente i bambini che avevano bisogno di un aiuto speciale in qualche attività.

In conclusione, il gruppo sperimentale superava in termini di Q.I. il gruppo di controllo lasciato nell'ambiente dei quartieri poveri. Nel Bellugi-Klima test di grammatica (che valuta la capacità e l'abilità del bambino di comprendere 16 forme verbali progressivamente più difficili), somministrato quando i soggetti avevano tra i tre e i cinque anni, il gruppo di controllo non addestrato aveva uno o due anni di ritardo nei riguardi del gruppo sperimentale. Quando entrambi i gruppi, sperimentale e di controllo, furono sottoposti, all'età di 4 anni e 7 mesi, all'Illinois test of Psycholinguistc Abilites, si rilevò che, mediamente, il punteggio del gruppo sperimentale era uguale alla norma dei bambini di 5 anni e 3 mesi (con un dislivello positivo sull'età cronologica di 8 mesi), mentre il gruppo di controllo aveva un Q.I. sempre mediamente, equivalente a soggetti di 3 anni e 10 mesi.

I soggetti del gruppo di controllo e i fratelli di quelli del gruppo sperimentale hanno messo in evidenza un divario di Q.I. e un parallelo decremento tipico dei bambini poveri. Il livello del Q.I. dei soggetti del gruppo sperimentale era al di sopra della media nazionale. Nell'applicazione del test somministrato all'età di 5 anni e 6 mesi il Q.I. del gruppo sperimentale era di 124 punti e quello del gruppo di controllo era di 94 punti. Alcuni soggetti del gruppo sperimentale hanno manifestato un Q.I. fino a 135 punti.

Un'altra ricerca interessante è quella affrontata da Bloom e Broder con studenti universitari. Entrambi questi studiosi ritengono che prima di realizzare un programma vero e proprio bisogna fare un'analisi approfondita delle capacità intellettive tipiche sia degli studenti universitari ad alto rendimento che di quelli a basso rendimento. Essi hanno preso in considerazione prima i secondi per rilevare il loro comportamento intellettivo tramite prove appropriate. Essi hanno visto che questi studenti non riescono a costruire il pensiero, ma producono un pensiero istantaneo e improvvisato; inoltre mentre gli studenti ad alto rendimento preferiscono un approccio decisamente attivo ai problemi e cercano di arrivare gradualmente alla soluzione, essi al contrario affrontano i problemi in maniera passiva e cercano di dare soluzioni affrettate tirando ad indovinare. Secondo gli autori tutto questo dipende massimamente dal fatto che essi non sono stati mai addestrati a pensare nel modo più giusto perché nessuno li ha mai guidati, insegnando loro come effettivamente pensare ed affrontare i problemi. Dopo avere analizzato le deficienze più frequenti di questi studenti gli autori hanno sviluppato un vasto programma di addestramento integrativo con lo scopo di intervenire sulle loro capacità per migliorarle con esercitazioni. Gli effetti di questo addestramento non sono stati misurati con test attitudinali perché gli stessi docenti hanno notato dei grossi miglioramenti; le loro classificazioni scolastiche infatti sono diventate piuttosto alte ed essi hanno poi potuto proseguire più facilmente gli studi universitari. Secondo gli ambientalisti, tra cui A. Wimbey e Jack Holmes, un altro messo efficace per migliorare l'intelligenza scolastica consiste nello sviluppare l'abilità nella lettura. La lettura che permette infatti di individuare il modo di pensare e ragionare di studenti con bassi Q.I. e suggerisce i metodi per un intervento efficace di recupero. Secondo A. Wimbey una cattiva lettura riflette tutto un modo sbagliato di ragionamento globale del lettore, per cui, una volta insegnati a quest'ultimo i metodi per una buona lettura, lo si abitua nello stesso tempo ad organizzare adeguatamente le proprie attività mentali. La comprensione della lettura e un abile ragionamento e pensiero sembrano essere attività strettamente collegate. Per questo fatto i test di lettura sono considerati di notevole importanza perché essi mirano alla comprensione psicologica delle attività mentali che compongono l'intelligenza.

A. Whimbey descrive tutte queste attività della mente e formula una definizione dell'intelligenza che ritiene molto utile ai fini dei procedimenti atti all'adeguamento intellettivo. L'intelligenza è una capacità di attenzioni, di elaborazione usata per analizzare e costruire mentalmente le relazioni complesse fra gli elementi di un problema.

Il componente principale di questa capacità è la ricerca estensiva e l'accurata percezione di tutti i dettagli importanti per la comprensione delle relazioni; completa utilizzazione di tutte le informazioni disponibili compresa la conoscenza precedente; accurati confronti e costruzioni sequenziali grado per grado. La vasta esperienza raccolta in merito è perciò in completa armonia con questa considerazione dell'intelligenza che è dunque una capacità sulla quale si può intervenire e che si può insegnare ad aumentare.

In Italia un'esperienza interessante è la seguente.

Polacek (1977) riferisce che con un programma di addestramento è possibile stimolare lo sviluppo intellettivo dei bambini, e in modo particolare quello degli svantaggiati. Il programma di intervento compensatorio attuato da questo, fu realizzato nell'anno scolastico 1975-76 con 200 bambini di due livelli di età (tre e cinque anni) a Massa Carrara e Avenza.

Avendo rilevato con un test (Pictorial test of intelligence: PTI) che la scuola materna non contribuiva sufficientemente ad un processo di promozione intellettiva dei bambini, prese come modello dell'intervento compensatorio il test stesso, il quale fornisce indicazioni su sei livelli funzionali dell'intelligenza: vocabolario, linguaggio e memoria; discriminazione visiva di forme; informazione e comprensione; somiglianze; dimensione e numero.

Per arricchire il vocabolario e la memorizzazione sono stati presentati dei racconti e da questi ricavati vocaboli meno familiari. In un secondo momento i bambini apprendevano ad associare la parola alla figura e successivamente ricostruivano il racconto.

Per ciò che concerne la capacità di astrazione, venivano mostrati ai soggetti vari oggetti sollecitandoli a scoprire le caratteristiche e a rilevarne le differenze.

Per l'informazione era presentato un cartellone sui mezzi di trasporto; e per lo sviluppo delle capacità percettive, venivano presentate ai bambini schede, nelle quali erano disegnati segnali, figure geometriche e simboli. Infine per l'approfondimento delle nozioni concernenti la dimensione e la quantità si fece sperimentare ai bambini vari oggetti per l'esplorazione dell'estensione della lunghezza, della posizione e della larghezza, ecc...

Dopo sei mesi l'autore ha riapplicato il test PTI, ottenendo i seguenti risultati: per il vocabolario il punteggio medio ha avuto un incremento di 6 punti e mezzo; per l'informazione e comprensione vi fu pure un incremento come pure per le somiglianze e la capacità di memorizzazione. Minori risultati si sono ottenuti per ciò che concerne il numero e le dimensioni.

L'intervento è stato articolato secondo tre gradi di intensità: trattamento leggero, medio e intenso esercitati su tutti e tre i gruppi, ad eccezione di quello dei soggetti "buoni". Infatti i soggetti, in base al punteggio, erano stati suddivisi in quattro gruppi di apprendimento: molto svantaggiati, svantaggiati, normali e buoni.

Polacek ha analizzato statisticamente i dati dei due prelievi, trovando differenze significative fra la prima e la seconda somministrazione, rilevando "un modesto accrescimento medio nel gruppo dei buoni e un notevole aumento nelle medie particolarmente nel gruppo dei molto svantaggiati".

Esaminando questi progetti intesi a migliorare l'apprendimento soprattutto di soggetti svantaggiati e a promuovere il recupero intellettivo, programmati ed effettuati in America e da poco anche in Italia, si possono cogliere diversi stimoli per gli insegnanti della nostra scuola. Un primo spunto di meditazione dovrebbe essere fornito dal primo principio o legge generale che può ritenersi, alla luce dei precedenti dati, universalmente valido: tutti gli allievi possono migliorare il loro apprendimento e progredire dai loro livelli di partenza, purché stimolati dagli insegnanti in modo adeguato e contingente. Soprattutto i bambini culturalmente svantaggiati trarranno beneficio da programmi finalizzati di recupero, svolti quotidianamente nella classe nel corso dell'anno per periodi di tempo sufficientemente lunghi.

Ammesso dunque il principio che soltanto pochissimi sono i casi per cui gli insegnanti mediamente dovranno ricorrere all'intervento di specialisti nelle tecniche di recupero, per la massa degli allievi che nella scuola dell'obbligo devono raggiungere determinati traguardi nell'apprendimento, sono possibili, e devono essere attuate, se necessario, dalle strategie di recupero che sanino l'eventuale deficit quando ancora è possibile sanarlo e che tendano a far scomparire la grave piaga della mortalità scolastica, ancora troppo alta soprattutto nelle prime classi elementari.

Di fronte a questo punto fermo vengono a cadere alcune argomentazioni che spesso sono portate da alcuni insegnanti per tentare di spiegare le cause del mancato o insufficiente apprendimento degli allievi, tali argomenti spesso risentono di un vizio di tipo genetistico o di tipo sociologico, attribuendo le cause del deficit o a carenze di tipo costituzionale-familiare, o di tipo ambientale.

Troppo spesso queste rimangono tuttavia fine a se stesse, senza che chi le ha formulate, a tutti un programma operativo finalizzato al recupero del soggetto, che rimane in questo modo etichettato, ma non guarito né tantomeno recuperato.

La necessità di saper programmare nella scuola tali strategie di recupero individualizzate e finalizzate richiede che l'insegnante debba agire come un tecnico dell'educazione, professionalizzando il suo ruolo con l'acquisizione di metodologie operative adeguate, sperimentali ed efficaci, superando una preparazione spesso genericamente filosofica e pedagogica. Inoltre l'opportunità già individuata di saper programmare per ogni situazione specifica e all'interno di una particolare realtà dei progetti finalizzati al miglioramento dell'apprendimento, richiede che non si trasportino in modo meccanico e acritico sperimentazioni adottate già in diversi ambienti socioculturali, senza una precisa individuazione delle esigenze e di problemi particolari dell'ambiente su cui si opera e si lavora.

Infatti un obiettivo che può essere di retroguardia in alcune realtà socioculturali, di fatto può essere individuato come obiettivo di avanguardia in realtà socioculturali diverse: in entrambi i casi tuttavia è necessaria una chiara programmazione che individui le mete da raggiungere a breve, medio, lungo termine, e la conoscenza di una metodologia precisa.

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